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La Libertà di Manifestazione tra Palestina e Manganelli

Da mesi ormai le piazze di tutto il mondo si riempiono di migliaia di persone e bandiere palestinesi per esprimere vicinanza, solidarietà e lotta affianco a un popolo vessato da oltre 70 anni dal regime di apartheid imposto dal governo israeliano: da lungo tempo le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite e le ONG partner osservano e denunciano, anche in sede ONU, gli atti di Israele, indagato dalla International Court of Justice per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio.[1] Infatti, nella striscia di Gaza i diritti umani sono calpestati senza pietà e le condizioni di vita sono definite apocalittiche.[2] Il diritto umanitario, che regola i conflitti armati internazionali per garantire dignità e diritti fondamentali nonostante la guerra, è completamente tralasciato in favore di un’oppressione sistematica che ha portato a una crisi umanitaria più che allarmante. 

Da una parte, cifre di vittime che salgono inesorabilmente, ad oggi trentadue-mila, di cui la maggioranza composta da donne e bambini, e dall’altra un governo che si volta dall’altro lato, occultando il fatto di star finanziando un massacro con armi e munizioni,[3] oltre che di aver sospeso i fondi all’agenzia umanitaria che da quattro generazioni assiste i profughi palestinesi,[4] e di essersi astenuti dalle risoluzioni dell’Assemblea Generale per un cessate il fuoco a Gaza.[5] 

Dunque, quando c’è un deficit di rappresentanza e il divario tra la corrente di pensiero — e d’azione — del Governo e del popolo è così ampio, è naturale che le persone protestino. E la protesta è un diritto, non una concessione, è uno dei principi della democrazia, non un lusso politico. 

A questo proposito, è necessario menzionare le diverse fonti del diritto che stabiliscono il diritto di libertà di opinione, espressione e manifestazione. 

Insieme alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, l’art. 17 della Costituzione cita «I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi», sancendo così una libertà inviolabile, garantita dall’art. 2, che riconosce i diritti dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, fenomeno che lo Stato non può negare, ma anzi, è tenuto a [6]vigilare. 

Da sempre la piazza è il luogo in cui chi non possiede potere decisionale può esercitare un altro tipo di potere: il dissenso, un sonoro e sfrontato dissenso di cui una democrazia sana si nutre. 

Le manifestazioni pubbliche sono espressione dei conflitti che attraversano la collettività, di un pluralismo ideologico che sfida il potere e genera una rottura necessaria per l’evoluzione della società; infatti, senza provocazione delle comode e indisturbate posizioni di potere, i diritti passano silenziosamente in secondo piano.  «Non conosco storie di rivoluzioni silenziose; non conosco storie di uomini o di donne che hanno guadagnato diritti scegliendo l’asservimento. Conosco per il silenzio, che è il terreno su cui avvengono i più grandi massacri della società.» [7] Così, il dissenso verso il massacro perpetrato da Israele, e verso la complicità del governo italiano, è represso con la forza nelle recentissime proteste di Pisa, Napoli, Firenze, Catania, Verona e Bologna, dove numerosi studenti, anche minorenni, sono stati caricati dalla Polizia di Stato con manganellate che feriscono non solo ragazzi innocenti, ma la democrazia stessa. 

Successivamente, applicando una forma tutta italiana di vittimizzazione secondaria, si passa a una criminalizzazione paternalistica dei giovani manifestanti, definiti dal Sindacato Autonomo di Polizia “professionisti del disordine”, violenti e noncuranti delle regole di autorizzazione delle manifestazioni. 

Menzionando nuovamente l’art. 17, comprendiamo però che sia errato parlare di “manifestazioni non autorizzate”, poiché in realtà non sono necessarie autorizzazioni, bensì solo comunicazioni preventive volte a un coordinamento efficace delle forze dell’ordine per adempiere al loro dovere costituzionale di proteggere i manifestanti: «Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica».

Gli unici limiti imposti dalla Costituzione rispetto a una riunione pacifica sono quindi la sicurezza e l’incolumità pubblica, secondo il principio di non ledere diritti altrui nell’esercizio dei propri (per esempio, una manifestazione potrebbe essere vietata nel caso in cui si sovrapponga in termini spazio-temporali a un altro corteo di un partito opposto, creando una situazione di conflitto potenzialmente pericolosa) e il buon costume, trattato nell’art. 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. […] Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni».

Secondo il diritto internazionale, la polizia, nel contenere una manifestazione violenta, deve comunque ricorrere all’uso della forza solo in via eccezionale e deve sempre rispettare i principi di legalità, necessità e proporzionalità. 

Gli standard internazionali inoltre prevedono che le “armi meno letali”, come gli stessi manganelli usati a febbraio, possano sì essere utilizzate come difesa contro attacchi violenti, ma prendendo di mira le aree muscolari più importanti del corpo (cosce e braccia), evitando invece le aree in cui possono verificarsi lesioni più gravi: «[…] Ogni colpo deve essere giustificato. Non devono essere utilizzati per disperdere un raduno pacifico o contro persone che sono pacifiche o che oppongono solo una resistenza passiva».[8]

In conclusione, si può affermare che la protesta sia da sempre un catalizzatore per il cambiamento, un amplificatore ispirato da minoranze escluse, emarginate e abusate per attirare l’attenzione pubblica e fare rumore contro un sistema che ambisce disperatamente al silenzio di suddette scomode minoranze. 

Una storia senza proteste è una storia lacunosa, ossia manchevole di numerosi dei diritti civili di cui godiamo e per cui dobbiamo ricordare chi ha avuto il coraggio di farsi sentire. 

«Continueranno a demonizzarci come una minaccia alla democrazia che cerchiamo di proteggere. Continueranno ad arrestarci e ad aumentare le sanzioni per essere un buon cittadino. E noi continueremo a venir fuori in segno di sfida, come le persone hanno fatto per secoli, anche di fronte alla violenza e alla repressione dello Stato».[9]

Allora, se il futuro è in mano ai giovani, i manganelli non devono essere in mano alla polizia.

Allora, se i giovani proteggono il loro futuro, chi protegge i giovani dal presente?


Sofia Brogi


[1] Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide in the Gaza Strip (South Africa v. Israel), ICJ

[2] Onu, 'a Gaza la situazione è apocalittica’ — Martin Griffiths, OCHA, ANSA

[3] Import Export per Paese e Anno, Classificazione per attività economica Ateco,Italia-Israele: esportazione di armi per un valore di 817.536 euro (233.025 a ottobre e 584.511 a novembre),

Istat, 2024

[4] ‘Tajani, anche l'Italia sospende i finanziamenti all’UNRWA’, ANSA

[5] ‘A l’ONU, l’UE vote majoritairement pour un cessez-le-feu à Gaza’, UNRIC

[6] La disciplina giuridica e l’analisi politica dell’ordine pubblico in occasione di riunioni, manifestazioni e cortei in luoghi pubblici, Questure e Polizia di Stato

[7] ‘Noi vogliamo tutto. Cronache da una società indifferente’, Flavia Carlini, Feltrinelli

[8] Guida per manifestare, Amnesty International

[9] ‘It felt like history itself’ – 48 protest photographs that changed the world, George Monbiot, «The Guardian», 2022

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