Come giuristi, o futuri tali, è per noi di fondamentale importanza interrogarsi su quel complesso fenomeno sociale che conosciamo con il nome di diritto. Uno dei fattori che più si interseca a esso è la concezione della pena: sarebbe infatti assai probabile che, se chiedessimo a un quivis de populo di riferirci cosa associa immediatamente alla parola “diritto”, il suo flusso di pensieri comprenderebbe tribunali, polizia e carceri. Ecco, qui di seguito vorrei esporre, senza pretese di particolare correttezza accademica, alcune riflessioni sul tema, tramite un dialogo attraverso il tempo con un grandissimo classico della sociologia in materia penale, “Sorvegliare e punire” del filosofo francese Michel Foucault.
Ora, la pena segue alla violazione di una norma, in base ad un nesso d’imputazione. E, nella nostra contemporaneità, la pena principale è quella detentiva, che, per lo meno dichiaratamente, consiste nella privazione della libertà. L’idea è che colui che ha violato le regole della società in cui vive, ossia il reo, debba subire necessariamente delle conseguenze, proprio perché si ritiene che una norma non dotata di forza coattiva sarebbe costantemente disattesa, fino alla degenerazione nella guerra di tutti contro tutti. Se nessuno rispettasse le norme, cesserebbe di esistere una società, e, perché esse siano effettivamente rispettate, sono necessarie le punizioni. Eppure, a un più attento esame di questa doxa generale, questa giustificazione diffusa, che potremmo definire come “teoria della pena della coscienza comune”, essa si rivela a dir poco fallace.
A chi afferma, magari anche in buona fede, che il reo sarebbe venuto meno ai doveri assunti con l’adesione al contratto sociale, si può obiettare che essi non hanno la benché minima idea di cosa sia un contratto. Nessuno, infatti, affermerebbe che il bambino appena venuto al mondo possa anche solo possedere una volontà tale da manifestare, anche implicitamente, la sua adesione al “contratto sociale”. Ci si trova al suo interno, piuttosto che aderirvi. Tanto meno l’adulto ha la possibilità di sottrarvisi, perché la società non glielo consentirebbe.
Dunque, in cosa trova la sua giustificazione la penalità? Nella prevenzione di altri reati? E allora perché si devono punire reati irripetibili e inimitabili? Nella retribuzione, nella volontà di “fare giustizia”? Ma ormai è fatto notorio che la giustizia non sia di questo mondo. E allora, per quale ragione si punisce? Per rieducare, afferma l’art. 27 della nostra Costituzione, implicando un incredibile numero di sottintesi, che difficilmente i padri costituenti avevano presenti. Scrive Foucault: «L’individuo […] è […] una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere che si chiama “la disciplina”. […] Il potere produce, produce il reale». Rieducare implica il trasformare un individuo, implica il produrne uno nuovo, secondo schemi prefissati, per “reintegrarlo” nella società che egli ha abbandonato commettendo un reato. L’uomo a una dimensione di marcusiana memoria è creato, o meglio, prodotto, anche attraverso il sistema penitenziario: secondo Foucault, potremmo dire, il sistema carcerario è stato disegnato allo scopo, inconscio o perlomeno implicito, di produrre, tramite le discipline, un nuovo uomo adatto ad abitare un nuovo Reale: questo nuovo uomo, così fabbricato, è il delinquente, che abita ai confini della legalità, ma lo fa in maniera definita, regolata, secondo schemi noti e prefissati. Egli è duttile, limitato, gestibile ed in quanto tale a-politico. Il criminale, che si metteva dalla “parte della giustizia”, contro il sistema, è stato eliminato dalla riforma della penalità sviluppatasi in concomitanza con l’affermarsi degli stati liberali. In un certo senso, e per dubbio gusto della proposizione teatrale, potremmo dire che la prigione moderna è stata creata con il fine di eliminare una volta per tutte i possibili Robin Hood.
Posta così, la situazione pare piuttosto inquietante. Ma stanno davvero così le cose?
Forse. Tuttavia, sono necessarie alcune importanti precisazioni.
Parlando di detenzione e di carceri, “bisogna aver visto”: ogni discorso senza raffronto empirico risulta viziato. Il sistema detentivo, soprattutto nel nostro paese, ha incontrato e incontra tuttora numerosi momenti di scacco: basta vedere la famosa sentenza della CEDU, Torreggiani contro Italia. Difficilmente la pena si limita alla sola “privazione della libertà personale”, ma porta con sé anche tutta una serie di afflizioni accessorie, fino a integrare gli estremi della tortura: si veda, a titolo di esempio, la questione del sovraffollamento carcerario. Ancora, il reinserimento sociale del detenuto rimane, nella maggior parte dei casi, un’utopia: o il tempo di permanenza nelle strutture detentive è troppo breve per poter mettere in atto un percorso rieducativo, o vi è carenza di personale istituzionale per far sì che questi percorsi possano anche solo essere predisposti, o i detenuti non hanno nessuna intenzione di percorrere questi percorsi, o, come accade nella maggior parte dei casi, coloro che hanno scontato la loro pena si scontrano con l’indifferenza o l’ostilità diffidente della società civile (si veda il rel. garante detenuti al parlamento 2023). Con tutte e le conseguenze del caso in tema di recidiva.
E fin qui, si risponderà, nulla di nuovo: sono problemi che affliggono l’istituzione carceraria fin dalla sua riforma all’inizio del XIX secolo. Uno scacco che potremmo definire quasi come strutturale, che così appunto categorizza Foucault, il quale lo vede come passaggio necessario nelle tecniche di potere.
Ma è a questo punto che possiamo notare l’elemento di novità dei nostri tempi: il carcere si sta isolando sempre di più rispetto alla società. Tende sì a marginalizzare e individualizzare, mantenendo il suo effetto di “produzione di delinquenti”, ma ha perso la sua funzione di sorveglianza: il mezzo principe per la creazione di uomini unidimensionali non è più quella delle istituzioni disciplinari, ma quella dei media. Una costante, pervasiva e accattivante propaganda è più efficace di qualsiasi disciplina.
A queste considerazioni, è moralmente doveroso aggiungerne una nota conclusiva e, forse, più importante. Dobbiamo infatti tenere sempre a mente che qualsiasi riflessione teoretica non deve essere rimanere astratta, ma deve essere riportata alla concretezza della contingenza. La prima cosa che si nota mettendo piede all’interno di un carcere, infatti, è il profondo senso di umanità che vi regna: fra detenuti e personale la volontà di raggiungere, per quanto possibile, un’armonia è costante, così come lo sono le tensioni e i momenti di scontro, ovviamente. I tentativi di conciliazione paiono però prevalere, fosse anche per una mera questione di tornaconto personale, visto che un clima migliore all’interno degli istituti di pena può mitigare di molto gli effetti, anche psicologici, della detenzione.
Discorsi come quello di Sorvegliare e punire possono aiutarci a capire quanto vi è di inconscio nella dottrina della pena, aumentando così la nostra comprensione della questione carceraria, ma sicuramente la situazione italiana presenta moltissimi elementi che ancora possono essere paragonabili a quelli delle concezioni carcerarie precedenti la Rivoluzione Francese. Quindi, compito odierno della società civile è innanzitutto rimuovere questi elementi residuali, per poi aumentare il suo coinvolgimento nella “rieducazione” dei suoi membri, per eventualmente giungere a una nuova teoria della penalità, volta a superare le carenze strutturali del sistema carcerario.
Ma questo è un tema per una nuova trattazione.
Alberto Sussetto
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