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Avvocati donne: la nascita delle toghe rosa

La Giornata internazionale dei diritti della donna ricorre l’8 marzo di ogni anno per ricordare sia le numerose conquiste economiche e sociali sia le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono tutt’ora vittime in ogni parte del mondo. In occasione della giornata della donna 2023, è bene porre attenzione su un tema, per il quale ci si auspica il raggiungimento di una parità di genere effettiva e concreta: il binomio donne e avvocatura.


Per secoli sognare di diventare avvocato era consentito soltanto agli uomini; per le donne si trattava invece di un sogno irrealizzabile, vietato dalla legge e dalla comune morale.

Anche se attualmente in Italia si è raggiunta pressoché la parità numerica per quanto riguarda il numero degli iscritti agli albi forensi, le avvocate hanno dovuto faticare parecchio prima di poter accedere alla professione legale. In alcuni paesi, ancora oggi, le donne combattono la battaglia per ottenere un riconoscimento nell’ambito dell’avvocatura.


Avvocati donne: i casi che hanno portato alla nascita delle “toghe rosa”


Fin dall’antichità la carriera forense era riservata agli uomini. Nell’antica Roma non c’era alcuna legge che vietasse espressamente alle donne la pratica della professione, eppure la possibilità per una donna di diventare giurista era così assurda che non v’era necessità di adottarne una.


Il primo nome di donna associata in senso stretto al mondo giuridico è quello di Giustina Rocco, la quale nel 1500, in possesso di un’adeguata preparazione giuridica, fu scelta come avvocato di una controversia relativa a questioni ereditarie.


Un altro caso è quello di Maria Pellegrini Amoretti: nonostante la sua preparazione giuridica, fu rifiutata dall’Università di Torino ma la sua domanda di laurea venne accolta alla Regia Università di Pavia e nel 1777 riuscì a conseguire la laurea in diritto civile e canonico. Con il regolamento generale “Bonghi”, nel 1875 venne previsto l’ingresso delle donne all’università.


Il caso di Lidia Poet fu però una delle vicende più eclatanti ed intense, su cui è bene porre una particolare attenzione.

Nel 1883, ella riuscì a conseguire, con il massimo dei voti, la laurea in Giurisprudenza dopo aver discusso una tesi sulla condizione femminile nella società e sul diritto di voto per le donne. Svolse successivamente il praticantato forense presso lo studio legale del fratello e riuscì anche ad ottenere l’iscrizione all’albo professionale dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino. Tuttavia, la sua vittoria durò poco: il procuratore generale del Regno mise in dubbio la legittimità dell’iscrizione e impugnò la decisione ricorrendo alla Corte d’Appello di Torino. L’11 novembre 1883 la Corte di Appello accolse la richiesta del procuratore e ordinò la cancellazione dall’albo. Lei non si arrese e ricorse in Cassazione, che però confermò la decisione della Corte d’Appello sostenendo che “La donna non può esercitare l’avvocatura”. Tra le motivazioni, vi erano anche quelle di carattere lessicale, tra cui spicca quella per la quale la legge unitaria sull’avvocatura 8 giugno 1874, n. 1938 era da intendersi solo per il genere maschile utilizzando il termine avvocato e mai quello di avvocata o di avvocatessa.

Le ragioni per le quali le donne dovevano essere escluse dalla pratica forense erano prevalentemente legate alla ‘non integra responsabilità giuridica e morale, nell’indole delle donne più propensa al sentimento che al pensiero’. Tra le motivazioni più assurde, oltre ad un’incapacità naturale a esercitare la professione, fu addotta quella dell’abbigliamento femminile, sconveniente sotto la toga. Nonostante l’esclusione, Lidia Poet continuò a operare collaborando con il fratello avvocato Giovanni Enrico e divenne attiva soprattutto nella difesa dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne, sostenendo anche la causa del suffragio femminile. Prese parte attivamente ai Congressi Penitenziari Internazionali dove ricoprì ruoli di rilievo per ben trent’anni, come membro del Segretariato occupandosi dei diritti dei detenuti e dei minori, promuovendo l’istituzione dei tribunali dei minori e affrontando il tema della riabilitazione dei detenuti attraverso l’educazione e il lavoro.

Il suo caso provocò l’apertura di un dibattito, anche a livello parlamentare, che portò all’emanazione della legge n. 1176 del 17 luglio 1919, chiamata Legge Sacchi, che abolì l’autorizzazione maritale e autorizzò le donne a entrare nei pubblici uffici, tranne che nella magistratura, nella politica e in tutti i ruoli militari.

All’articolo 7 viene stabilito che: “le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni e a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici e giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento.”


Tuttavia, pur trattandosi di un diritto scritto su carta, nelle aule del tribunale le “toghe rosa” continuarono ad essere guardate con diffidenza.


Nel 1919 Elisa Comani riesce ad ottenere l’iscrizione all’albo degli avvocati di Ancona, diventando così la prima donna avvocato in Italia. Nonostante i commenti negativi e sarcastici della stampa, che la definì una “sirena in décolleté”, riuscì nel corso della sua carriera ad ottenere incarichi importanti.


In Europa la situazione non fu molto diversa. Nel Regno Unito le donne furono ammesse agli studi di diritto nel 1873, in Francia nel 1887, negli Stati della Germania tra il 1900 e il 1908.

Bisogna però precisare che l’ammissione agli studi non coincideva con la possibilità di potersi laureare, per la quale bisognerà attendere l’anno 1917 per il Regno Unito e l’anno 1912 per la Germania.


La situazione attuale: Avvocati e Avvocate

Secondo alcune indagini statistiche condotte da “Almalaurea”, la professione di avvocato è intrapresa maggiormente dalle donne; le ultime percentuali forniscono un quadro che vede il 58% appartenere alle donne e il 32% agli uomini.


Per quanto oggi le avvocate abbiano ottenuto la parità, sussiste ancora una sorta di retaggio discriminatorio, legato principalmente all’apparente incompatibilità tra il ruolo professionale e quello di mamma.


La legge, a tal proposito, ha fatto alcuni importanti passi avanti. La legge di Bilancio per il 2018 ha disciplinato il “legittimo impedimento”, che prevede per le donne avvocato la possibilità di chiedere rinvii di udienza e decorrenza dei termini in caso di gravidanza, per il periodo che va dai due mesi precedenti la data presunta del parto fino ai tre mesi successivi.


Attualmente i pareri sulla preparazione giuridica sono alquanto contrastanti; i più estremisti sostengono addirittura che la laurea in Giurisprudenza sia alquanto inutile, o comunque poco promettente ai fini di una carriera di successo nell’ambito forense.

In realtà c’è da dire che oggi i corsi di laurea in Giurisprudenza garantiscono una preparazione decisamente più versatile di quella che caratterizzava i percorsi universitari di qualche decennio fa.


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