C'era un ragazzo che come me...
- resethica
- 13 mar 2022
- Tempo di lettura: 5 min
Fermatevi.
Pensate un momento.
Vedere la guerra in televisione, ai telegiornali, su Instagram, Facebook, alla radio la mattina, fa sì paura, ma in fondo ci rincuoriamo dicendoci che, dopotutto, l’Ucraina è lontana.
Così, dopo qualche minuto in cui siamo rimasti immobili in balia di questo pensiero, ci prepariamo per un’altra giornata.
Arriviamo in università, ci sediamo accanto ai soliti amici, dopo due chiacchiere inizia la lezione e prendiamo appunti, guardando con stupore chi si spacca le mani a sbobinare tutto ciò che dice il prof di procedura civile.
Dopo la lezione prendiamo un caffè alle macchinette, e ringraziamo di essere arrivati un paio di minuti prima della solita calca che si forma.
E poi usciamo, prendiamo un pokè, una pizza o una piadina, andiamo al parco perché è una bella giornata, ridiamo, siamo felici.
Siamo ragazzi, dopotutto.
A vent’anni la guerra non ti tocca.
Imbracciare un fucile? Lo abbiamo fatto solo nei videogiochi, con gli amici.
Mentre ridi e scherzi, per un momento ti chiedi “e se fosse qui?”.
Combatterei anch’io?
Morirei per la patria? Per l’Italia?
Scrolli la testa, non ci pensi e ritorni a divertirti.
La stessa domanda se la sono posta dei ragazzi come te, stessa età, stessi interessi, stesse passioni, nati solamente a 3.000 chilometri da te.
Ragazzi che, fino a qualche giorno fa, dopo una mattinata in università uscivano anche loro con gli amici, quando c’erano le belle giornate, a mangiare al parco.
Ora il sole è coperto dalla polvere dei detriti e dal sangue innocente.
Le belle giornate sono finite e non si va nemmeno più in università.
Non c’è più la voglia e la forza di uscire, essere felici, spensierati, ridere e scherzare con gli amici al parco, in una bella giornata.
Morirei per la patria? Per l’Ucraina?
Se per te questa domanda non ha avuto una vera e propria risposta, per molti di loro invece sì.
C’è la paura, ed è tanta: la paura di morire, la paura di soffrire, la paura di non rivedere più la mamma, il papà, la sorellina o il fratellino, di non rivedere gli amici, la ragazza o il ragazzo, di non poter essere più libero.
Ed è proprio la voglia di libertà che spinge l’uomo ad andare incontro alla morte, ad accettarne il rischio, a superarne la paura.
Morire per la libertà.
Ti sembra quasi un ossimoro. Come puoi essere libero se muori?
Invece che chiedersi “come puoi essere libero se muori?”, chiediti “come puoi essere vivo se non sei libero?”.
Mentre stai tornando a casa, questa domanda ti impedisce di avere un qualsiasi altro pensiero.
Ragazzi nati negli anni 2000, che non hanno sperimentato sulla loro pelle la dittatura e l’oppressione sovietica, che sono pronti a morire per la libertà.
La libertà, quella condizione che fino a pochi minuti fa non avevi mai messo in discussione nella tua testa.
Sì, l’hai studiato, è un diritto fondamentale dell’uomo, la gente ci ha scritto articoli e articoli sulla libertà, ma non ci hai mai veramente ragionato su.
Chi ha scritto la nostra Costituzione, pensi, l’ha sperimentata la soppressione della libertà, ed ecco perché ci ha dedicato tanta enfasi in quell’articolo 13.
Ma, pensi, questi ragazzi non l’hanno vissuta l’epoca sovietica, eppure non indugiano nel prendere le armi e difendere quel bene scarso che è la libertà.
Meglio la morte che l’oppressione.
Ma, forse, morire sarebbe un gran peccato, per il solo fatto che se si muore non si può più difendere la patria.
Ancora però non ti capaciti di come, con tutta la buona volontà ed il patriottismo che si può avere, si possa accettare il rischio di morire a vent’anni.
Eppure, tu lo canti sempre, spesso con la mano sul cuore, quando gioca la Nazionale:
“Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamo!”.
Mentre pensi a questi versi ti viene subito in mente che chi ha scritto l’inno era un ragazzo come te, nato non lontano da dove sei nato tu, l’unica cosa a separarvi sono quasi duecento anni di storia.
Goffredo Mameli muore infatti a ventun anni, era pressoché un tuo coetaneo, muore per un ideale, muore per un valore.
Muore per un qualcosa che non era mai esistito prima e che ancora per un decennio dopo la sua morte non sarebbe esistito: l’Italia.
E tanti ci sono morti nei secoli per questo ideale.
Allora è possibile morire per un’idea, pensi.
Non si scappa, non si fugge. Si resiste.
Si resiste contro l’invasore, contro il gigante, si resiste contro chi ti vuole privare della tua libertà, della tua vita, delle tue abitudini, del tuo pranzo al parco con gli amici quando c’è bel tempo.
Non si piange, non c’è tempo per farlo; non tremeranno le gambe, per la paura o per il freddo.
Con la testa colma di pensieri accendi il televisore e c’è il telegiornale.
Raccontano, guarda caso, la storia di un ragazzo, Alexey, ventun anni, mentre viene fotografato accanto alla sua ragazza, Elena, entrambi con un’arma fra le braccia.

L’amore nella guerra; il sorriso di lei, che appoggia la testa sulla spalla di lui, con lo stesso sorriso che aveva in una foto del mese prima, quando erano insieme a Parigi sul lungosenna.
Ora sono ancora loro, insieme, non importa dove, quando e come: sono insieme.
Nella buona e nella cattiva sorte, forse se lo sono già promessi, o almeno ti piace immaginarlo.
Per cosa si combatte, se non per vedere ancora lei che si appoggia con la testa sulla tua spalla? Per cosa si muore, se non per far splendere ancora il sole sui tuoi figli? Per cosa si lotta, se non per essere liberi?
Il nemico non è la Russia, i nemici non sono i cittadini russi, il vero nemico non è nemmeno il ragazzo che gli ha appena sparato nel petto.
Sì, perché proprio quel ragazzo portato a forza o con l’inganno in un paese straniero a combattere per un motivo ignoto anche a lui, vedendo solo morte e distruzione, madri che piangono i figli caduti, figli che cercano i padri scomparsi, non è nemico per te. Il tuo vero nemico è l’oppressione della libertà.
E quel soldato non voleva tutto questo.
È un ragazzo come te, stesse ambizioni, stesse paure, stessi pensieri, nato solamente in un Paese che bombarda il tuo con pretesti fasulli e con metodi disumani.
Ed il soldato piange mentre spara, ma non ha altra scelta.
Sa che se non lo fa, gli attende una sorte ben peggiore.
Si innesca quell’ancestrale impulso di sopravvivenza della mors tua vita mea.
Il soldato, fatto prigioniero poco dopo, non sostiene più il peso di una guerra che sulle sue spalle non poteva reggersi, scoppiando nel più infantile dei pianti.
Una donna lo abbraccia, è sua madre. Abbraccia e rincuora chi ha appena infranto i sogni futuri del figlio.
Era un ragazzo come lui, dopotutto.
Siete infondo la stessa persona, siete solo lontani nello spazio e nel tempo.
Siete ragazzi che non volevate tutto questo, ma che, in modi diversi, tutto questo vi ha travolti.
E tu che sei ancora davanti al televisore, immobile, pensi a quanto sei fortunato a trovarti qui, in questo momento, e quasi ti senti in colpa verso gli altri, meno fortunati.
Alexey invece giace a terra, esalando gli ultimi respiri, mentre una coltre di cenere gli accarezza il viso e lo porta via con sé, nel vento.
Ivan, il soldato russo, con una coperta calda sulle spalle e sorseggiando un the caldo, riesce a chiamare sua madre, assicurandole che sta bene. Forse sta provando finalmente quella tanto difesa libertà.
I nemici non sono le persone.
Il vero nemico non muore al fronte, il vero nemico non uccide quel ragazzo con il fucile che gli si pone davanti, il vero nemico non obbedisce agli ordini e non lotta per un ideale.
Il vero nemico sta nel suo castello, nel suo Cremlino.
Carlo Buccisano
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