L’avvento dei social media, nella propaganda politica e, nello specifico, nelle campagne elettorali, ha cambiato radicalmente le regole del gioco; anzi, sarebbe probabilmente più corretto affermare che la loro travolgente influenza nelle dinamiche socio-politiche ha cambiato completamente un gioco nel quale le regole, purtroppo, sono rimaste pressoché le stesse.
Oggi, infatti, in ogni mutamento dell’assetto politico, il vero ruolo da protagonisti spetta ai profili social e il vero terreno di confronto si è trasferito dai giornali ai tweet, dalla televisione a TikTok. Sebbene anche nei mezzi più tradizionali fossero presenti notizie distorte e titoli accattivanti, le differenze radicali dei nuovi portali web portano a chiedersi: “È ancora possibile esercitare una scelta libera e consapevole?”
Ciascuno trascorre in media dalle 3 alle 5 ore tra Instagram, Facebook e Twitter, tempo nel quale viene bombardato di continuo da informazioni di ogni tipo riservando pressoché la stessa attenzione a ciascuna di esse; quindi, se da un lato il loro impatto lascia il tempo che trova, dall’altro si assorbono passivamente notizie che si tende ad assumere per vere. La comunicazione politica diventa così un sottofondo: prima bisognava informarsi leggendo un giornale o ascoltando un programma, oggi, che lo si voglia o meno, si è a conoscenza automaticamente di frammenti di notizie che non serve cercare perché trovano noi.
Conseguenze del carattere istantaneo e continuo dell’interazione sono, in primis, una competizione costante e l’assenza della separazione tra campagna elettorale e periodo di governo; in secondo luogo, si ha la distruzione della coerenza: non importa se ciò che si dice oggi verrà contraddetto domani, i social, anche quando si tratta di politica, premiano chi segue le tendenze e ci sono interi team all’opera per sapere “dove tira il vento”. Ecco qui un paradosso: su internet non si può rimuovere nulla, eppure più nessuno è chiamato a prendersi la responsabilità delle proprie precedenti affermazioni.
Un altro aspetto rilevante riguarda l’influenza senza precedenti esercitata nello stabilire l’agenda mediatica e la capacità di mettere su un piedistallo alcune informazioni piuttosto che altre, trasformando ciascun utente (o potenziale elettore) in un megafono. Sorge qui un ulteriore paradosso: l’illusione di sentirsi coinvolti e di trasportare la propaganda politica su una dimensione bidirezionale nasconde in realtà, se la si guarda da vicino, la trasformazione dell’elettore in un consumatore politico. Allo stesso modo in cui più si conoscono i gusti di qualcuno più facilmente gli si vende un paio di scarpe, anche le idee sono più persuasive se indirizzate alle persone giuste.
Entra così in gioco la targetizzazione. Appoggiandosi ad algoritmi in grado di ricavare un profilo di ciascun utente e di risalire a gusti e preferenze, essa consente di colpire sempre nel segno, confermare ciò per cui già si protendeva e radicalizzare le credenze.
Ancora più pericolosa è l’impossibilità di risalire alle informazioni “su misura” con cui ciascuno è venuto a contatto nella sua home page e che hanno rappresentato le premesse del sillogismo aristotelico che ha prodotto la scelta elettorale.
È esemplare il caso della cittadina Ebbw Vale, in Galles, una delle circoscrizioni elettorali con la più alta percentuale di voti per il Leave (72%) al referendum sulla Brexit. L’aspetto inverosimile, come emerge dalle ricerche della giornalista Carole Cadwalladr (finalista per il premio Pulitzer), era stato la motivazione fornita dagli abitanti. In moltissimi avevano affermato che “l’UE non aveva fatto nulla per loro” e “non ne potevano più di immigrati e rifugiati”; peccato però che la realtà dei fatti fosse molto diversa. Gran parte della città, infatti, era stata completamente rinnovata con i finanziamenti dell’Unione (cosa testimoniata da cartelli stradali diffusi per tutta la cittadina) e il paese aveva uno dei più bassi tassi di immigrazione del Galles. Provando ad indagare, dei contenuti facebook da cui queste persone erano state raggiunte non era rimasta alcuna traccia e, solo dopo mesi di ricerche, emerse la profilazione politica di 87 milioni di utenti messa in atto dalla società Cambridge Analytica e finalizzata a carpirne le paure per indirizzare i post pubblicitari. Questa inchiesta aveva portato la Brexit a essere considerata “la più grande frode elettorale mai avvenuta nel Regno Unito”.
Passando invece all’Italia, la piena consapevolezza delle potenzialità della comunicazione social è stata raggiunta nelle elezioni politiche del 2018 che hanno visto prevalere, non a caso, il populismo, nella sua veste di sinistra rappresentato dal Movimento 5 Stelle e di destra dalla Lega.
Si può tracciare un legame quasi naturale tra populismo e dimensione popolare dei social network, come è evidente nel caso Trump e in Brasile, tanto nella precedente elezione di Bolsonaro, quanto nell’attuale ballottaggio in corso. Infatti, le soluzioni semplicistiche, la centralità della figura del leader e la pretesa di un dibattito alla portata di tutti, sono elementi cardine che contraddistinguono entrambi.
Sempre a dimostrare la crescente pervasività nelle campagne elettorali, se nel 2018 si è verificata quella che è stata definita la “prima elezione social”, un mese fa, il 25 settembre, si è conclusa la campagna più social di sempre dove il partito che ha ottenuto il miglior risultato, Fratelli d’Italia, ha registrato una spesa di oltre 90 mila euro negli ultimi 30 giorni e 37.313 euro solo nell’ultima settimana.
Per contrastare la disinformazione e la disincentivazione al voto in vista delle elezioni, è stata effettuata una collaborazione tra Meta e Ministero dell’Interno riguardante la pubblicazione di promemoria elettorali e la diffusione di link che rinviavano direttamente al sito istituzionale per trovare informazioni attendibili. Alcune mosse nella stessa direzione erano state fatte anche in occasione delle elezioni europee del 2019 dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni e dal Garante Per La Protezione Dei Dati. In generale, dunque, le istituzioni europee stanno tentando di affrontare la questione della trasparenza nei contenuti pubblicitari di natura politica.
Quanto agli obiettivi da perseguire, innanzitutto è necessario porre dei limiti alle spese in inserzioni per assicurare la parità delle armi tra i vari partiti e aggiornare la normativa in materia elettorale, ad esempio estendendo l’obbligo di indicare il nome del committente (come imposto della legge 515 del ’93 in riferimento alle pubblicazioni di propaganda elettorale). Anche il silenzio elettorale (disciplinato dalla legge 212 del ’56) deve essere ripensato per includere le dichiarazioni effettuate via social.
Dall’altro lato della medaglia, le piattaforme dovrebbero informare sui pagamenti e sul target selezionato dai mandatari e dovrebbe essere predisposto un archivio navigabile contenente le pubblicità politiche.
Purtroppo, si tratta di obiettivi molto complessi la cui realizzazione può essere compromessa anche per l’utilizzo dei BOT, profili falsi dietro ai quali si cela un algoritmo informatico.
In conclusione, la tecnologia ha spazzato via secoli di norme elettorali e le leggi attuali equivalgono a tenere al guinzaglio un bisonte. Inoltre, come sostenuto da Yuval Noah Harari, le elezioni e i referendum si decidono prevalentemente sul piano dei sentimenti e delle emozioni, dunque, quando si è in grado di controllare le informazioni e i sentimenti che queste susciteranno, “il libero arbitrio potrebbe presentarsi come un mito del passato”.
Tornando alla vera domanda: si possono ancora avere elezioni libere e corrette? E, di conseguenza, si può ancora parlare di democrazia liberale?
La risposta, per ora, non può che rimanere in sospeso e determinante sarà la capacità degli istituti di adattarsi a un mondo, quello del web, che ormai è evaso dalla sua dimensione fino a plasmare la realtà stessa. L’errore più grande sarebbe dare per scontata la democrazia, considerarla inevitabile mentre viene svuotata dall’interno e ridotta a un simulacro vuoto.
Sara Lombardo
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