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Centro di gravità permanente. Ep. 1- Brutalismi universitari.

Chissà cosa mi spinge a raccontare di me… forse questa ansia che mi divora? Magari la necessità di fare un po’ chiarezza in questo guazzabuglio di pensieri? Eppure, quando penso a queste pagine mi sembra di dover affrontare tutto il mio mondo nello stesso momento e, facendolo, mi rendo conto che forse non ci sto capendo nulla.

Un impero dove l’imperatore è senza volto: nessuno sa chi sia, ma, ogni tanto, arrivano degli ordini che vanno seguiti, la disobbedienza è punita con l’autodistruttività.

Se solo mi conoscessi un po’ meglio forse non avrei la necessità di essere così severo con me stesso. E quindi frustrazioni, ancora frustrazioni alternate a dubbi e sogni ad occhi aperti. Tutto questo si fa più chiaro ogni secondo che passo lontano da casa. Sono a Milano, nel mio appartamento da studente con i miei due coinquilini che mi stanno un po’ sulle palle. Il muro e i colori della casa rimbombano il senso di vuoto e incertezza che provo. È tutto bianco e nero, sembra davvero che abbiano fatto di tutto per rendere quella casa meno domestica possibile. Le linee dei mobili squadrati e freddi, il pavimento di marmo bianco con venature nere, che poi in realtà marmo non è, con uno strato di polvere e sporco posatogli sopra e rinvigorito quotidianamente.

Almeno si vedono dei gatti dalla finestra del cortile… che belli i gatti, mi hanno sempre ricordato le ragazze. Come si muovono, le movenze fluide e delicate, e la loro diffidenza. Ho sempre visto una somiglianza tra come si seduce un gatto e una donna. Un piccolo passo dopo l’altro, sempre prendendo l’iniziativa e cogliendo i segnali di quando è necessario lasciarle un po’ di spazio per poi riprendere. Purtroppo non hanno inventato ancora nulla che abbia lo stesso effetto sulle ragazze del merluzzo sui gatti, anche se i più cinici dissentirebbero.

L’università non è male, il campus è ancora infuso di quella strana aura di novità che rende difficile orientarsi. Le lezioni sono interessanti e i professori bravi ma non riesco a frequentarle. Qualcosa mi impedisce tutti i giorni di sedermi al banco; non è che non mi piaccia seguire o che non sia motivato, sono sempre quei muri bianchi e quelle linee squadrate che mi bloccano. La costanza è una gabbia. Ogni giorno, ogni ora passata a lezione mi mette a confronto con l’eterno ritorno dell’orario settimanale, della routine. Lo studio poi non ne parliamo, evito i libri come se fossero velenosi. Comincio proprio ora a pensare che andare bene al liceo studiando poco non sia poi tutto questa gran cosa. Chi l’avrebbe mai detto che a vent’anni la mia massima aspirazione sarebbe diventata essere un secchione.

Alle pause tra una lezione e l’altra comincio a conoscere qualche persona. Qualche conversazione d’occasione nata per un passaggio d’accendino, tanti “Ciao, sei anche tu del corso di Management”, oppure “di dove sei?”. Ecco che dopo aver risposto a questa domanda tendenzialmente si aggiunge, per fare i simpatici, una battuta sulla provincia di riferimento o sull’accento. Poi tutti questi sorrisi. E io davvero non capisco perché mi diano così fastidio i sorrisi. Ogni tanto mi sento il grinch, però davvero, che cazzo c’è da sorridere?



Riccardo Carpani


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