top of page
Immagine del redattoreresethica

Da macro a micro

“Toc, toc”. “Chi è?”, rispondono tutti insieme alla porta US, UE, Cina, Russia, India e Giappone. “Siamo i paesi in via di sviluppo” rispondono, “E da dove venite?” chiedono i Potenti, “Veniamo da Africa, America Latina e Asia”. “Ma cosa volete da noi, ancora?” chiedono le sei potenze spazientite. “Con tutta sincerità, ci piacerebbe farvi provare terremoti, inondazioni, siccità e carestie che ci perseguitano per colpa vostra, ma ci accontenteremo di chiedervi una mano a rimetterci in piedi” rispondono gli assoggettati. “Vedremo cosa possiamo fare”.

Così, anno dopo anno, le Conferenze delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si susseguono. I paesi in via di sviluppo che chiedono una redistribuzione economica per combattere gli effetti dei cambiamenti climatici che per lo più si abbattono sui loro territori, e i paesi avanzati che promettono ma non mantengono. Le sei sopracitate economie avanzate rappresentano da sole il 49.2% della popolazione globale, ma sono responsabili del 67.8% delle emissioni globali di CO2 fossile (dati Sole 24 Ore). Inoltre, le responsabilità storiche delle emissioni sono per lo più da trovarsi in US, UE, Giappone, Canada e Australia, che dal 1750 ad oggi hanno immesso nell’atmosfera più del 50% dell’anidride carbonica mai prodotta, rappresentando solo il 12% della popolazione mondiale, mentre si stima che tutto il continente Africano sia responsabile solo del 3% delle emissioni cumulative (dati ISPI).

Questa mancanza di corrispondenza tra chi inquina e chi ne soffre le conseguenze sta alla base di un grande problema di equità e giustizia climatica, distributiva e intergenerazionale. I paesi vulnerabili, per la maggior parte collocati nel sud del mondo tra Africa subsahariana, Sudest asiatico e l’America centromeridionale, sbattono i pugni sul tavolo da anni per vedere riconosciuto il loro diritto ad essere protetti dai cambiamenti climatici, per i quali sono responsabili solo in minima parte. Questi paesi inoltre chiedono l’esenzione da stringenti standard per la riduzione delle emissioni, dato che questo potrebbe frenarne la crescita e lo sviluppo economico, giustamente richiamando il fatto che le economie più avanzate hanno potuto inquinare a loro piacimento per creare crescita economica.

I paesi più ricchi hanno a lungo cercato di rimandare la questione, ma recenti avvenimenti come le drammatiche inondazioni avvenute in Pakistan nel 2022 hanno riaperto la questione. La COP27 sembra aver posto delle prospettive per il raggiungimento della giustizia climatica attraverso la creazione di un fondo “Loss and Damage” diretto ai paesi più vulnerabili e colpiti dai cambiamenti climatici, finanziato dalle economie avanzate. Tuttavia, non sono stati ancora definiti dettagli importanti, come l’ammontare, i beneficiari e i finanziatori, facendo intendere l’istituzione del fondo più come una dichiarazione di intenti alla quale non è seguita una vera e propria risoluzione. Ben poco se ne fanno i paesi più colpiti.

Inoltre, diversi studi mostrano come un livello più alto di disuguaglianze sia legato ad un più alto livello di emissioni e degrado ambientale. Basti pensare che tra la popolazione globale il 10% più inquinante è responsabile del 45% delle emissioni globali, mentre il 50% meno inquinante vi contribuisce soltanto per il 13% (dati Oxfam). Le cause principali si ritrovano nella distribuzione della ricchezza e nello stile di vita della fascia di popolazione più ricca, per cui i cosiddetti “super-ricchi” inquinano molto di più di tutto il resto della popolazione, con abitudini di consumo e di investimento spesso contro le norme sociali e ambientali. Più la forbice sociale si allarga, maggiori sono i danni climatici.

Ed è questo il punto di passaggio fondamentale da macro a micro.

Fare scelte consapevoli è diventato sempre più importante. In una società in cui ci si riempie la bocca della parola “sostenibilità”, ben poco sostenibili sono molti prodotti nei nostri armadi e sulle nostre tavole, come d’altra parte le nostre abitudini di consumo che riguardano le risorse naturali (l’acqua, il gas, la luce) e i trasporti. Ma soprattutto, in una società in cui tutte le aziende (dalle banche alle multinazionali) cercano di promuovere il LORO concetto di sostenibilità, si assiste ad un progressivo svuotamento nel significato di questo termine, che diventa sistematicamente soggetto a storpiature. La sostenibilità di un prodotto percorre tutta la filiera, dal produttore al consumatore, non solo le fasi di imballaggio o la distribuzione. “Non può dirsi sostenibile un’azienda che sia all’avanguardia nel risparmio energetico, nella lotta alle emissioni, nella gestione dei rifiuti, nel consumo d’acqua ma al contempo venda prodotti che provengono da filiere in cui il lavoro è “inquinato” da condizioni di sfruttamento, per condizioni di lavoro poco sicure o poco tutelate”. Così riporta con franchezza nel suo libro Alessandro Franceschini, presidente di Altromercato, prima realtà cooperativa italiana e seconda nel mondo come dimensioni nel Commercio Equo e Solidale.

Il Commercio Equo e Solidale rappresenta la scelta di provare a cambiare le cose. Le organizzazioni che operano nel Fair Trade sono “native sostenibili”, perché hanno avuto la lungimiranza di realizzare fin da subito filiere a basso impatto ambientale e alto impatto sociale, legando la giustizia climatica a quella sociale. Questo movimento promuove l’idea che anche nel nostro piccolo possiamo provare a fare la differenza, comprando prodotti che siano veramente sostenibili, non solo da un punto di vista ambientale, ma anche da un punto di vista sociale. Centinaia sono le cooperative italiane ed europee che collaborano con realtà dei paesi vulnerabili e realtà svantaggiate ed emarginate dei nostri paesi, garantendo una giusta protezione dei lavoratori, condizioni lavorative dignitose ed un salario giusto, che non dipenda dall’oscillazione dei prezzi di mercato dei prodotti, che troppo spesso vedono ricadere le conseguenze negative proprio sui piccoli produttori. Questi ultimi sono inoltre quelli che subiscono di più le conseguenze dei cambiamenti climatici, tra siccità e alluvioni, cambiamenti nella maturazione dei raccolti, parassiti malattie e di conseguenza minori rendimenti.

Quello che noi consumatori privilegiati possiamo fare nel nostro piccolo è una scelta che, per quanto piccola e apparentemente poco significativa, è una scelta radicale e molto potente. “Il consumo è un fatto che riguarda tutta l’umanità, perché dietro a questo nostro gesto quotidiano si nascondono problemi di portata planetaria di natura sociale, politica e ambientale” (Guida al Consumo Critico, EMI 1996). Una frase che racchiude il senso del consumo critico e responsabile. Il consumatore critico considera infatti non solo la dimensione di sostenibilità ambientale del processo produttivo di un prodotto, ma anche la sostenibilità sociale dello stesso (condizioni dei lavoratori, opposizione allo sfruttamento, un salario equo riconosciuto).

Operando questa scelta radicale, possiamo trasformarci da consumatori a consumattori, consumautori e consumattivisti (riprendendo le scelte semantiche care ad Alessandro Franceschini). Il consumattivista non è solo un consumatore responsabile, ma è colui o colei che si rende partecipe di un movimento ben preciso, scendendo nelle piazze fisiche e virtuali, con il fine di cambiare radicalmente la visione del consumo odierno. La campagna “Consumi o Scegli?” portata avanti da Altromercato simboleggia la visione e la missione che si portano avanti nel Commercio Equo Solidale a livello mondiale. Un consumo che talvolta si deve tradurre anche in non-consumo, quando non strettamente necessario. Un consumo che deve essere ragionato e ragionevole. Ben poco facciamo di buono se compriamo un caffè o del cioccolato con la confezione riciclabile o biodegradabile, ma poi quegli stessi prodotti provengono da contesti di sfruttamento del lavoro. Questo atteggiamento non è sostenibilità, ma ci fa inconsciamente stare bene perché sappiamo di aver fatto il nostro piccolo gesto quotidiano. Ma molto più c’è da fare.

Il consumo responsabile ha visto un notevole incremento nell’ultimo decennio in Italia, ma è spesso sporadico e inoltre leggermente in riduzione dopo la pandemia. Soprattutto, emerge un dato interessante: i consumatori giovani dei paesi avanzati (Millenials e GenZ) sono i più preoccupati per le cause del cambiamento climatico (il 65-90% si dice fortemente preoccupato), ma sono anche una delle fasce che investe meno nei prodotti sostenibili, anche rispetto ai loro coetanei nei paesi in via di sviluppo (dati Credit Suisse Research Institute e EticaEconomia). Segno che qualcosa va cambiato nella testa dei giovani consumatori, quelli che possono fare la differenza ora e nel futuro.

Diverse cooperative italiane ed internazionali combattono da decenni i meccanismi perversi del mercato di libero scambio che creano enormi disuguaglianze, in particolare in quelle filiere dove i produttori sono sfruttati e ricevono una minima parte del prezzo del prodotto finale (giusto per fare un esempio, i produttori di banane e di caffè nel libero mercato ricevono in media tra il 5 e il 10% del prezzo del prodotto finito). Tali realtà di Commercio Solidale assicurano contratti a lungo termine con le cooperative di produttori locali, un prezzo minimo garantito, una condizione di pre-finanziamento e investimenti in tecniche agricole volte al ripristino della biodiversità e alla conservazione dell’ambiente. Ed ecco l’anello di congiunzione: la giustizia sociale e la giustizia climatica. Favorendo una riduzione delle disuguaglianze e un aumento della qualità della vita delle comunità coinvolte in tali progetti, vi è un passaggio fondamentale da un’economia estrattiva ad una rigenerativa. Un radicale cambiamento, da un’economia ultra-capitalista basata sull’estrazione e lo sfruttamento massimo delle risorse ai fini del profitto e del potere politico, ad un’economia basata sulla rigenerazione delle risorse, sulla cooperazione e solidarietà tra il capitale e il lavoro, col fine di un miglior benessere sociale ed ambientale.

Tale svolta non è solamente responsabilità politica a livello internazionale, nazionale e locale, ma anche responsabilità etica e morale di ogni singolo cittadino. Storicamente, il cambiamento più radicale, maturo ed efficace è quello che parte dal basso.

Ed ecco che allora noi persone, cittadini, consumatori dei paesi più avanzati abbiamo un ruolo fondamentale. Fare scelte consapevoli è la chiave per iniziare a smantellare e sostituire il sistema di sfruttamento. Rivolgersi a cooperative con filiere sostenibili anche socialmente, informarsi sull’origine dei prodotti che mettiamo sulle nostre tavole e che indossiamo, andare in Bottega per toccare con mano le realtà e le storie dei produttori emarginati e sfruttati a cui le cooperative hanno ridato vita, la scelta del non-consumo rivolta all’abbigliamento. La scelta di diffondere forte e chiaro questo messaggio, via social e nelle piazze.

Non vi è giustizia climatica senza giustizia sociale. Noi possiamo iniziare il cambiamento, attraverso gesti e azioni concrete, per ridurre le disuguaglianze ed invertire la rotta climatica.


Giovanni Colombo






81 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page