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Due turisti cinesi a Roma e l’infodemia

2 marzo 2020. Pressoché l’82% della popolazione mondiale possiede uno smartphone. Chi vive in un Paese industrializzato e tecnologicamente avanzato come il nostro ha quotidianamente accesso ad una straordinaria – per non dire spropositata – quantità di notizie ed informazioni. Poche censure, pochi limiti.

La Costituzione italiana all’articolo 21 stabilisce che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

Questo significa che, in linea di principio, in un Paese libero e democratico come il nostro ciascuno ha la possibilità di esprimersi liberamente e, altrettanto liberamente, diffondere informazioni. Ma fino a che punto? Qual è la linea sottile oltre la quale questo nobile principio incontra i suoi più dannosi risvolti?


Nelle ultime settimane, il Mondo, in generale, e il nostro Paese, in particolare, hanno vissuto momenti estremamente difficili per via della diffusione del nuovo coronavirus, e in questi giorni di tensione abbiamo avuto modo di toccare con mano i danni e i pericoli che da una cattiva informazione e da un cattivo uso dei media possono scaturire.


Ricapitolando brevemente, la drammatica vicenda ha avuto inizio nel dicembre 2019 con alcuni casi di simil polmonite, con origine apparentemente sconosciuta; il I° gennaio 2020 il mercato di Wuhan – considerato l’epicentro dell’epidemia – viene chiuso; il 7 gennaio la Cina conferma di aver identificato un nuovo tipo di virus rinominato “2019-nCoV”; solo il 20 gennaio il Governo cinese comincia ad intervenire.


Da allora, l’allarme globale.


Comincia la diffusione di notizie; i primi dati sui contagi in Cina non sono rassicuranti… pian piano in virus fa il suo ingresso in altri Paesi vicini alla Cina. Si dovrà tuttavia aspettare il 30 gennaio affinché l’Oms dichiari l’emergenza sanitaria globale. Sempre il 30 gennaio vengono accertati i primi due casi italiani: due turisti cinesi a Roma. In un primo momento la situazione sembra stabile; senonché tra il 22 e il 23 febbraio i casi italiani aumentano esponenzialmente; vengono isolati i comuni-focolaio e il Governo vara rigide misure di sicurezza. In soli due giorni, il panico più totale.

In soli due giorni televisioni, social media, radio, ci hanno bombardati di dati. Bastava mandare Google inrefresh ogni 5-10 minuti per avere aggiornamenti sul numero dei contagi.

In soli due giorni, abbiamo avuto la prova di come il popolo – per non dire popolino – reagisca ad un boom di informazioni di questa portata, e i risultati non sono certo stati entusiasmanti.

La paura si è diffusa a macchia d’olio: da una parte si trovavano indicazioni sulle condotte preventive da adottare, dall’altra si veniva avvisati anche se il vecchietto del bar della piazza del comune di Nonsocosa in provincia di Nonsodove starnutiva[MOU1] .

Hanno cominciato a diffondersi su WhatsApp messaggi e audio di ogni genere, diretti esclusivamente a fuorviare e impaurire.


La procura di Milano ha aperto un'inchiesta per diffusione di notizie false atte a turbare l'ordine pubblicoin relazione ad un audio che circola su WhatsApp che inciterebbe a fare la spesa perché Milano sarebbe finita in quarantena.

Detto fatto: assalto ai supermarket. Così, nel pomeriggio di lunedì, c’è chi a fatto a botte fra le corsie dell’Esselunga per accaparrarsi l’ultimo barattolo di fagioli in scatola (ndr).

Qual è il problema alla base di tutto questo? Che le persone non sanno – o sanno troppo poco, o sanno troppo, e male – e quando le persone non sanno hanno paura.

Ci sono tante cose che non sono state dette in questi giorni. E se non vengono dette come si fa a saperle?Devi andarle a cercare. E se non lo sai fare perché sei un pigro utilizzatore di social network che si accontenta del primo post divulgativo su Facebook invece di aprire il sito di una testata giornalistica seria online, cosa succede? Rimani ignorante.

E così, la maggior parte delle persone non sa che il coronavirus di Wuhan, comparato a tutti gli altri maggiori virus dal 1967 (Marberg) ad oggi – compresi Ebola, SARS, MERS e H1N1 – è quello con il tasso di mortalità più basso: poco più del 2%. Non solo: nella stragrande maggioranza dei casi il virus si manifesta come una normalissima influenza (circa l’80% dei casi); nel 15% dei casi si guarisce dopo essere sottoposti alle cure di rito; il 5% dei casi può riscontrare complicazioni. Coloro che vanno incontro al destino più triste sono, quasi esclusivamente soggetti deboli, spesso anziani, con patologie pregresse e versanti ex ante in cattive condizioni di salute.


Perché allora questo panico diffuso?


La presente situazione viene definite alcuni come infodemia, id est “un’epidemia di informazioni distorte e confuse a cui è vulnerabile non solo chi già soffre d’ansia, ma anche chi non ha gli strumenti culturali per distinguere una notizia affidabile da una che non lo è.”

Una cattiva divulgazione di informazioni porta inevitabilmente ad una deviata percezione della realtà delle cose. I media tendono ad esasperare gli aspetti negativi di una vicenda semplicemente perché “fa notizia”, “fa audience”: più è preoccupante più sarà “succulento”.

Si arriva così, in poco tempo, ad una situazione in cui il virus non è più il COVID-19: il virus è la paura del virus stesso. E la paura, come è ben noto, conduce a comportamenti irrazionali: assalti ai supermercati, mascherine indossate a sproposito, centinaia di euro spesi in Amuchina e disinfettanti di sorta.

Tutto questo mentre si perde di vista la vera danneggiata di questa storia: l’economia.

Migliaia di piccole e medie imprese pugnalate da questa improvvisa paralisi, un pò imposta, un pò volontaria, della socialità.

Un’informazione come quella che è stata rivolta agli italiani nelle ultime settimane è da sciacalli, loschi sfruttatori della sventura altrui.

La libertà di espressione è pilastro irrinunciabile di ogni ordinamento democratico, è unità di misura del grado di libertà di ogni società[MOU4] . Tra tutti i diritti e le libertà fondamentali, è forse lo strumento migliore attraverso cui l’uomo può dar prova della propria nobiltà e profondità intellettuale; la possibilità di manifestare liberamente il proprio pensiero è, storicamente, una conquista straordinaria, rispetto alla quale i popoli non possono oramai fare un passo indietro. Da qui derivano le due facce della stessa medaglia: da una parte, il diritto ad informare, dall’altra, il diritto ad informarsi. Il secondo sembra essere rimesso esclusivamente al buon senso dei singoli, che possono scegliere di documentarsi, così come di non farlo, che possono scegliere di fare ricerche approfondite, così come di fermarsi ad apparenze e dicerie. L’esercizio del primo, invece, sembra portare con sè non solo l’onore di essere una voce dal popolo e per il popolo, ma anche l’onere di sincerità, verità, obiettività, imparzialità della notizia che a quel popolo viene rivolta.


E allora perché tutto questo marketing della paura? Perché questa campagna pubblicitaria dei soli aspetti drammatici della vicenda COVID-19?

La verità è che se i media fossero solo meno concentrati sul far apparire città come Milano un deserto, e provassero (solo un pochino..!) a dipingere la forza e la speranza di tutti quei cittadini che, soprattutto in questi giorni difficili, si svegliano ogni mattina per fare il proprio dovere e far funzionare questa bellissima macchina che è l’Italia, forse saremmo ad un passo in più verso la sconfitta del virus.. Se si provasse a ridurre il gap informativo e culturale invece di fomentarlo forse si respirerebbe un’aria diversa. Forse, milioni di persone smetterebbero di vedere quella contro il virus come una battaglia persa in partenza, e comincerebbero a riporre nella scienza, nella medicina e nei loro operatori la fiducia che questi meritano.


Appello ai media: tornate ad una realmente nobile esplicazione di quell’art. 21 della nostra Costituzione.

Appello ai miei connazionali: leggete. Leggete tanto, e leggete bene. Solo così potremo curare quest’infodemia. A curare il virus (grazie al cielo) ci pensano i nostri medici.


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