Quanto segue, commenta l’evento “Effetto Covid: ci siamo dimenticati della cultura?” della nostra associazione, tenutosi il 19 febbraio 2021, a distanza di 111 giorni da quando i luoghi della cultura sono stati ininterrottamente chiusi, per indagare come la pandemia abbia influenzato il mondo dell’arte.
“Il teatro è di tutti. Ne sentiamo la mancanza, è spento”: questo il leitmotiv scelto dall’associazione U.N.I.T.A. per l’iniziativa Facciamo luce sul teatro che questo pomeriggio, dalle 19:30 alle 21:30 porterà i teatri a re-illuminarsi, dopo l’anno di buio impostogli dall’emergenza sanitaria COVID-19.
Secondo il suo manifesto “U.N.I.T.A. è un’associazione di categoria fondata da più di 100 interpreti del teatro e dell’audiovisivo creata per sostenere e promuovere la centralità del mestiere dell’attore all’interno del panorama artistico e culturale e nella formazione sociale di ogni individuo.”
Tra i nomi dei soci fondatori figurano quelli di Stefano Accorsi, Luca Argentero, Alessia Barela, Giuseppe Battiston e delle tante personalità dello spettacolo che, come illustratoci da Giorgia Cardaci – vicepresidente dell’associazione insieme a Fabrizia Sacchi – “si sono messe a disposizione di un sentire comune”, ovverosia quello di “iniziare a dialogare con le parti sociali, datoriali per far capire che il nostro è un mestiere”.
Il tema di fondo è ben ampio: la pandemia ha influenzato il mondo dell’arte, troppo sacrificato nei mesi passati posto che questi sacrifici – o più largamente un disagio comune e generale alla realtà di cui parliamo – preesistevano al COVID che li ha soltanto esasperati.
“Il problema è il tema del lavoro” ci dice ancora Fabrizio Gifuni – uno dei consiglieri dell’associazione – sulla scorta della triste consapevolezza per cui “il mestiere dell’attore ha sempre avuto una grande difficoltà di comprensione”.
Quest’incomprensione nasce dalla concezione dello spazio (e del tempo) dell’arte e della cultura. Ci si potrebbe chiedere - con un fare volutamente provocatorio – l’arte e la cultura, per il fatto stesso di esser prodotte (e dunque a prescindere dal risultato) generano reddito? O altro non sono che un passatempo, un divertissement, di cui pure godono quegli altri che vivono e producono nel “tempo delle cose serie” e che solo residualmente, quando “non c’è altro da fare”, si dedicano od assistono al dipanarsi del “tempo libero”.
A seguito della rivoluzione industriale, infatti il mondo dell’arte e della cultura precipitano rovinosamente nello spazio del “tempo libero”.
Ebbene, questa “divisione temporale” – a noi illustrata da Gifuni e tratta dalle parole dell’antropologo scozzese Victor Turner – ci riporta ad un’intervista a Totò, di diversi anni fa.
I: “Principe, attraverso la recitazione lei ha costruito una particolare interpretazione, una mimesi particolare …”
T: “ si, ma a che cosa serve tutto questo? Un falegname è più di me, in fondo, lascia una sedia che potrà vivere nei secoli. Io lascio delle parole che le generazioni poi non se le ricordano più.”
Ecco, il “tempo delle cose serie” è il tempo del falegname, del lavoratore, mentre il “tempo libero” è il tempo dell’attore.
Ora, venendo al tema del lavoro, pare quindi che la realtà arranchi a posizionare le idee creative nel campo culturale - ovverosia l’ampio panorama delle opere dell’ingegno, la cui definizione prendiamo a prestito dall’art. 2575 c.c. – nelle trame del sistema di produzione capitalistico che, secondo la nostra Costituzione, è architrave delle dinamiche e delle tutele del mondo del lavoro in Italia. O, se non altro, questa è la percezione per chi di quella realtà ha fatto un “vivere quotidiano”.
La stessa percezione, è veicolata da Dominique Meyer - sovrintendente del teatro alla Scala - che fa il punto sulla situazione nel mondo della lirica, parendo dal dire che “la cultura non è considerata attività essenziale” inoltre “[…] uno spettacolo senza applausi è come una piscina senz’acqua”: quanta tristezza c’è nel sapere che con lo streaming (quindi con la registrazione dell’opera di cui poi usufruire altrove rispetto al teatro) “la prima [teatrale n.d.A] sarà anche l’ultima”.
Tutto questo, a parere di chi scrive, non necessita di alcun ulteriore commento.
Soltanto una riflessione sul significato degli applausi e dello streaming. La domanda di fondo è: perché l’arte e la cultura che, in fin dei conti comunicano e si rivolgono all’anima, hanno bisogno di corpi e di corpi vicini allo spettatore, tanto che con la chiusura dei teatri c’è stata, secondo Gifuni, una “mutilazione del principio fondante di questo lavoro [quello degli attori n.d.A.]”.
Probabilmente perché l’anima senza un “supporto materiale” è limitata nella sua libertà d’espressione: come faccio ad esprimere un pensiero, un’emozione senza parlare, senza muovermi, senza sorridere o senza urlare. E se il mondo dell’arte, comunica con l’anima, utilizzando il linguaggio delle emozioni, privarlo di un corpo vivo, vicino e materiale (cioè anzitutto non virtuale) impedisce al mittente di comunicare ed al destinatario di ricevere, lasciando così insoddisfatti sia il primo che il secondo.
Ritenere questa comunicazione superflua e/o non tutelarla a dovere, è una perdita per tutti. E d’altra parte, come ci ricorda lo scultore Jago Cardillo nel suo intervento, questo tempo ci ha insegnato a dar pregio a ciò che superfluo non è, come bisogna fare per ricavare dal marmo, l’opera d’arte. L’arte e la cultura non sono attività superflue.
In conclusione, dunque, con l’auspicio che le sedi apposite accolgano il postulato di una maggior cura - laburistica e fiscale - effettivamente in grado di “sostenere e promuovere la centralità del mestiere dell’attore all’interno del panorama artistico e culturale e nella formazione sociale di ogni individuo”, in un viaggio nel passato per incontrare Totò ci piacerebbe mostrargli quanto non sia vero che egli avrebbe lasciato delle parole che le generazioni poi non ricorderanno più.
Le generazioni non solo ricordano, ma vivono ancora ciò che ha lasciato e per questo lottano affinché quel ricordo – tramite un’amarezza che in scena, per converso, faceva divertire - abbia dignità per chi ne ha fatto il mestiere di cui campare.
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