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È questa la motivazione che è stata addotta da politici, giornalisti, virologi, medici ed esperti in merito a tutte le limitazioni e decisioni prese da febbraio 2020 fino ad oggi.

Ed è proprio così che si apre il punto 9 dell’art. 1 del DPCM del 24 ottobre 2020. 

Perché questo DPCM è rimbalzato di bocca in bocca, molto più di quanto abbiano già fatto tutti i precedenti decreti firmati dal Presidente del Consiglio?

In realtà già da molto si discute sull’effettiva capacità di tali provvedimenti di limitare libertà costituzionalmente tutelate. In merito a ciò si è pensato più volte ad un intervento della Corte Costituzionale, ma questa non è, né formalmente né sostanzialmente, tenuta a pronunciarsi a riguardo. Difatti, all’interno del nostro ordinamento, l’unico giudice chiamato a valutare la legittimità o meno di tali decreti, viene ad essere il TAR (Tribunale Amministrativo Regionale) del Lazio. Inoltre, lo stesso TAR, a fronte di ricorsi relativi all’effettiva necessità o meno dei DPCM, ha ribadito l’eccezionalità della situazione pandemica in cui ci troviamo e ha dimostrato come la continua e repentina modifica di tali ordinanze ne impedisca un vaglio, essendo le stesse già state superate e sostituite da nuove disposizioni.

In linea con quanto stabilito dal TAR, secondo alcuni, tali decreti sarebbero legittimi poiché riconducibili al decreto legislativo n.1 del gennaio 2018. Un decreto legislativo in forza del quale il Presidente del Consiglio dei Ministri, a fronte di “emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale”, possa dotarsi di “mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo”, andando ad intaccare anche libertà e diritti costituzionalmente protetti: la libertà di circolazione e movimento per fare un esempio.

Tuttavia, se vogliamo essere completamente onesti con noi stessi, ciò che turba l’animo degli italiani, relativamente consapevoli del ritorno di una seconda ondata e quindi delle conseguenti restrizioni, non è l’imposizione di regole nuove, quanto l’evidente disparità di trattamento all’interno di una fonte secondaria del diritto, dichiaratamente subordinata alla fonte primaria per eccellenza, la legge, e alla Costituzione, vertice della piramide normativa.

Se, difatti, analizziamo i diversi articoli del decreto in questione, si denota come lo Stato italiano si sia premurato di consentire che “l'accesso ai luoghi di culto [avvenga] con misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità̀ di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro”.

A destare scalpore nell’opinione pubblica è stato, tuttavia, il punto successivo: “sono sospesi gli spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in altri spazi anche all’aperto.”

In sostanza: gli spettacoli teatrali NO ma le chiese e gli altri luoghi di culto SÌ.

Questa netta disparità di trattamento non è propriamente riconducibile ad una netta ed evidente distinzione tra un gruppo più o meno ampio di fedeli rivolti verso un altare e un palcoscenico con una platea più o meno ampia di spettatori. Difatti coloro che, durante una celebrazione religiosa di qualsiasi tipo, svolgono una serie di precisi atti e ruoli, quali la lettura delle Sacre Scritture o la celebrazione dell’Eucarestia nel caso della religione cattolica, non sono equiparabili ad attori con in testa un loro copione, una loro parte? E tutti i fedeli, seduti distanziati sulle panche, ad osservare quanto avviene davanti ai loro occhi non sono minimamente riconducibili ad un pubblico? Infine, il temutissimo assembramento, alla fine della celebrazione, non raggiunge le stesse dimensioni e non induce agli stessi rischi di un assembramento alla fine di uno spettacolo teatrale o cinematografico?

Quel che lascia sbigottiti, a questo punto, è il fatto che il DPCM non sembri realizzare il principio di uguaglianza formale (art. 3 Cost.) secondo il quale si devono trattare in modo eguale situazioni eguali. In altre parole, gli istituti religiosi e i teatri, a fronte di una eguale struttura organizzativa, dovrebbero rimanere o entrambi chiusi o entrambi aperti.

Inoltre, dal momento che il decreto del Presidente del Consiglio è frutto dell’attività amministrativa, è sottoposto al principio cardine di proporzionalità, in forza del quale i diritti e le libertà dei cittadini possono essere limitati solo nella misura in cui ciò risulti indispensabile per proteggere gli interessi pubblici. Perché, dunque, risulta più indispensabile, per la protezione degli interessi pubblici, limitare la cultura piuttosto che la religione?

A ben vedere, ai fini esclusivi degli interessi pubblici, è indispensabile evitare assembramenti tanto nei teatri, quanto nelle chiese. Ma, secondo parte della dottrina giuridica, il DPCM del 24 ottobre ha rispettato l’anzidetto principio di uguaglianza formale, sancito all’art. 3 della Costituzione, trattando in modo diverso situazioni diverse. L’elemento di diversità è determinato dalla tavola assiologica dei valori. Quest’ultima consiste in un ordinato catalogo di valori, diritti e libertà inviolabili appartenenti alla nostra comunità, interiorizzati dalla Costituzione italiana e disposti secondo un ordine gerarchico non casuale. Per cui, se si osservano i primissimi articoli della Costituzione si nota come gli articoli 7 e 8, disciplinanti le confessioni religiose, precedano lo sviluppo della cultura, riconosciuto e tutelato all’art. 9.

La cultura viene dunque dopo la religione.

Ma un dibattito è tale se vi sono almeno due punti di vista differenti. La Corte Costituzionale ha altresì specificato come tutti i diritti sanciti dal testo costituzionale siano egualmente importanti. Ragion per cui, molti hanno obiettato che l’apertura culturale sia una finestra sull’anima al pari di qualsiasi fede religiosa e che lo stesso Stato Italiano, in forza dell’interpretazione dell’art. 7 della Costituzione, si dichiari uno stato laico dal 1948.

Ora, tutto questo non è altro che uno spunto di riflessione, un esempio utile a dimostrare non tanto la presunta incostituzionalità di un decreto del Presidente del Consiglio, perché, sì, è certamente vero che stiamo affrontando un periodo buio e che non sia ottimale puntualizzare e lamentarsi di ogni decisone presa dal governo in carica. Tuttavia è importante non abbandonare il proprio spirito critico e imparare tutto ciò che questa esperienza pandemica ci sta rivelando sul nostro Paese.

Pertanto, è essenziale osservare come, per molti aspetti, ci siano forti incongruenze, incongruenze, che, nell’attuale situazione di tensione socio-politica, non sono più riconducibili allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 sull'intero territorio nazionale.

Sara Crimella

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