“L’odio è un ubriaco in fondo ad una taverna che sente di continuo la sete rinascere dal liquore e moltiplicarsi come l’idra di lerna.
Ma i bevitori felici conoscono il loro vincitore e l’Odio è condannato al triste destino di non poter mai addormentarsi sotto la tavola.”
Questo sonetto di Charles Baudelaire intitolato “La botte de l’odio” consegna gli odiatori al più meschino dei destini. Chiaramente è “un finale” che non si augura a nessuno e che anzi ciascuno dovrebbe evitare, ma siamo tutti consapevoli di come anche attraverso il linguaggio si possa rivelare odio. E spesso - non sempre – vittime dell’avversione sono le classi più deboli e indifese, per certi aspetti le minoranze e nella maggior parte dei casi soggetti che hanno in comune il fatto di essere (per qualunque ragione) diversi dai più, dagli standard o, peggio ancora, dalle costruzioni sociali.
Da questa premessa può bene intendersi il significato del c.d. hate speech, per tale intendendosi: “una categoria elaborata negli anni dalla giurisprudenza americana per indicare un genere di parole e discorsi che non hanno altra funzione a parte quella di esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo, e che rischiano di provocare reazioni violente contro quel gruppo o da parte di quel gruppo”.
Il termine si diffuse durante secolo scorso con la teorizzazione pseudo-scientifica della superiorità della razza, tema – com’è noto - tristemente caro ai nazionalismi. Lo psicologo Gordon Allport, in The nature of prejudice (1951) ha scritto che le antilocution (“parole contro”) sono il livello più basso di razzismo in una scala da 1 a 5 ed al cui vertice si trova lo sterminio dei diversi.
Il fenomeno ha tuttavia assunto particolare rilievo e grande visibilità con la IV rivoluzione industriale - quindi nell’era digitale - grazie alla potenza della rete che “come una ragnatela avvolge il mondo” (non a caso world wide web). I social network costituiscono il “campo di battaglia” per antonomasia, di questa lotta a colpi di “antilocution”. Inoltre, l’odio online, si caratterizza per la permanenza, (talvolta) per l’anonimato ed infine per la transnazionalità.
Ebbene, la libertà d’ espressione è sì un diritto fondamentale costituzionalmente garantito (art. 21 Cost.), ma coesiste pur sempre con il “super principio” di dignità – su cui peraltro si regge l’intero architrave del nostro ordinamento giuridico.
Come risolvere, dunque, un eventuale conflitto?
Per dirla con le parole di Stefano Rodotà, un dato è certo: “la misura del diritto induce a rivolgere l’attenzione anzitutto alla rilettura del rapporto tra dignità, libertà ed eguaglianza”.
Ma aldilà del diritto, sarebbe bene insistere sull’importanza di un’etica sociale che induca a riflettere attentamente sull’utilizzo della libertà di espressione, dando maggior rilievo al rischio di urtare la dignità altrui, tramutando così l’esercizio di un proprio diritto in arma d’ offesa. E questo perché ad esser colpita non è soltanto la dignità altrui, ma anche quella di chi si esprime; si fatica del resto a credere che un’espressività indecorosa possa attribuirsi ad un soggetto che di per se - perché è il fatto stesso di essere umani che ci connota come dignitosi e ci rende per questo liberi ed eguali - è dotato di dignità. Vieppiù: nulla toglie che potremmo trovarci ad esser noi stessi vittime di un qualche discorso d’ odio e scoprirci indifesi al cospetto del suo impeto.
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