Il caso Pompa: fino a che punto la legittima difesa tutela le vittime di abusi?
- resethica
- 6 dic 2021
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“Sappiamo quello che abbiamo vissuto, abbiamo visto l'inferno e la morte in faccia e quando diciamo che Alex ci ha salvato la vita è perché è così.” Questa è la frase pronunciata da Loris Pompa, fratello di Alex, il ragazzo che ha ucciso il padre per difendere la madre e tutta la famiglia dalle continue violenze del genitore.
L’omicidio è avvenuto il 30 aprile 2020; Alex ha pugnalato il padre ben 34 volte, ricorrendo all’utilizzo di sei coltelli diversi. Il ragazzo, dopo l’accaduto, ha chiamato i carabinieri e ha immediatamente confessato la sua colpevolezza, affermando di aver agito per difendere la madre dalle continue aggressioni di un marito eccessivamente aggressivo e geloso.
Il legale del ragazzo ha fin da subito invocato la piena assoluzione, sottolineando che si trattasse di legittima difesa.
Tuttavia, il Pubblico Ministero ha richiesto 14 anni di carcere con il riconoscimento di seminfermità e l’attenuante della provocazione, ritenendo inizialmente che la vittima fosse un uomo minaccioso e litigioso ma non pericoloso, e che la situazione non fosse del tutto ingestibile. Il sostituto procuratore ha sottolineato di essere costretto a proporre una pena così elevata a causa di un dettaglio nascosto nel Codice penale: nei casi di omicidio di un ascendente non è possibile far prevalere le attenuanti rispetto all’aggravante del vincolo di parentela. In quella stessa occasione, inoltre, il Pubblico Ministero ha invitato i giudici della Corte di Assise di Torino a proporre una questione di legittimità costituzionale dal momento che sembrava opportuno “valutare la ragionevolezza di questa norma”.
Senza dubbio, a favore della posizione del ragazzo sono stati valutati dalla Corte i numerosi audio registrati dai due fratelli nei quali si possono ascoltare frasi intimidatorie come “vi ammazzo tutti, vi troveranno in una fossa". Infatti, è la madre stessa a sottolineare che sia lei che i figli avevano preso la decisione di memorizzare sul telefono alcune discussioni “perché pensavamo che ci avrebbe ammazzato” dal momento che le minacce di morte erano ormai una costante.
In particolare, la madre di Alex ha spiegato che il giorno dell’omicidio il marito era molto nervoso perché ossessionato dalla gelosia e dal controllo che intendeva esercitare su di lei: l’aveva spiata al lavoro e, avendo visto un collega appoggiarle la mano su una spalla, l’aveva chiamata centouno volte al telefono. La donna ha affermato: “era una furia, andò oltre ogni limite. Mi avrebbe uccisa; se non fosse stato per Alex, io oggi non sarei qui”.
Inoltre, Alex stesso ha evidenziato la gravità della situazione ricordando che sia lui che il fratello facevano i turni per non lasciare la madre sola con il marito, per paura che quest’ultimo la sottomettesse e la sopprimesse.
I giudici della Corte d’Assise di Torino hanno deciso, lo scorso 24 Novembre, di assolvere Alex perché il fatto non costituisce reato.
Con tale pronuncia pare che i giudici di merito abbiano voluto far prevalere la legittima difesa che, invece, dalle parole del Pubblico Ministero, pareva non poter essere integrata nella fattispecie in esame perché sembravano mancare due requisiti essenziali, cioè l’attualità del pericolo e la necessarietà dell’azione.
Il tema in questione è quello della violenza domestica: nei casi simili a questo, spesso, i problemi legati alla legittima difesa non riguardano la sproporzione tra i beni in gioco, dato che è per difendere il bene vita della propria persona o dei membri della propria famiglia che si agisce in modo violento; piuttosto, essi concernono l’attualità del pericolo e la necessità di un’azione difensiva così estrema.
Se, da un lato, l’orientamento della giurisprudenza tende ad escludere la liceità dell’azione quando la persona violenta viene uccisa senza possibilità di difendersi, dall’altro lato, si ritiene che, nei casi di violenza domestica, l’autore del reato potrebbe sempre ricorrere a soluzioni meno estreme, fuggendo dal pericolo o ricorrendo alla denuncia.
Tuttavia, sembra che tali posizioni siano inadeguate se calate nelle situazioni concrete di violenza domestica. E’ forse necessario ampliare il concetto di legittima difesa?
Nel Codice penale, infatti, le condizioni in presenza delle quali può trovare applicazione tale causa di giustificazione sono molto rigorose. Ma di fronte a continui abusi, come si configura una difesa adeguata? E’ giusto aspettarsi da chi si difende la lucidità necessaria per stabilire cosa sia proporzionato fare o se vi sia effettivamente l’attualità del pericolo in quel preciso istante? E, ancora, ha senso il concetto di pericolo attuale in caso di violenze che si protraggono nel tempo?
Vi sono casi in cui, infatti, si ritiene che il soggetto vittima di maltrattamenti avrebbe potuto difendersi in modo meno violento e non vengono presi in considerazione i precedenti anni di soprusi nel tentare di giustificare la reazione dell’autore del reato. Questi sono i casi in cui la definizione legale in questione si è dimostrata eccessivamente stretta.
Inoltre, dal momento che il tasso di femminicidi è elevatissimo, dato che evidenzia come la violenza contro le donne sia un fenomeno criminoso molto diffuso, una soluzione potrebbe trovarsi, forse, in una riforma che introduca una presunzione automatica di legittima difesa nei casi di violenza domestica.
Perlomeno, oggi, nel caso di Alex Pompa, sembra che la giurisprudenza abbia finalmente fatto un passo avanti nell’ampliare il concetto di legittima difesa.
Maria Cristina Trimboli
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