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Il potere della comicità

Quale immagine è più potente? Un uomo a torso nudo che cavalca un orso polare o un uomo in mutande che suona un pianoforte “senza mani”? Senza la pretesa di indicare una risposta corretta, il secondo scenario ha avuto il 70% delle preferenze nelle elezioni democratiche del 2019 del suo paese, il primo, invece, non ha mai fatto troppo pace con la parola “democrazia”, e neanche con la stessa parola “pace”.

Volodymyr Zelenskyj nasce come comico. L’immagine citata prima lo ritrae in uno dei suoi sketch più celebri ma è stata la Serie TV “Servitore del popolo” ad aprirgli le porte del successo politico. Essa tratta di un professore di storia che, durante un’invettiva contro la politica e la connivenza degli elettori verso lo status quo, viene filmato da uno studente; tale video diventa di dominio pubblico e ciò fa sì che il prof diventi presidente. Spoiler di una storia bizzarra e utopistica, ma visto che la realtà sa essere più fantasiosa della finzione, lo spoiler più importante lo conosciamo tutti: l’attore che interpreta il professore nella serie diventa egli stesso presidente dell’Ucraina fondando un partito omonimo alla serie e sbaragliando la concorrenza alle elezioni politiche.

Ora, se è vero che il giullare era l’unico che poteva dire la verità a corte, era inimmaginabile che diventasse re. Il “giullare”, termine spesso usato ingiustamente con accezione dispregiativa, non è altro che l’interprete della forma d’arte più diretta, trasversale, e dunque potente e democratica, che esista: appunto, la comicità. Non sorprende, alla fin fine, che ciò sia accaduto in un sistema democratico.

Senza voler dare giudizi di valore, è stato un comico a spaccare, in Italia, il bipolarismo che ha caratterizzato la Seconda Repubblica. Ed è stato un politico ad utilizzare come mezzo comunicativo e di avvicinamento alle persone, il genere narrativo umoristico più italiano che esista: le barzellette.

Comicità e democrazia sono sempre andate a braccetto, dalle commedie greche alla satira romana, che Quintiliano orgogliosamente rivendicava come “tota nostra”. Data l’efficacia comunicativa generata da un paradosso, un’iperbole, un’antitesi, storicamente, dove c’è stata libertà c’è stata comicità, e in ogni momento storico i comici sono stati i garanti della libertà di pensiero e d’espressione, della dialettica e della critica, perché quando il re è nudo, bisogna avere il coraggio (o l’incoscienza) di dirlo, come fa il bambino nella favola “I vestiti nuovi dell’imperatore” di Andersen.

Certamente, difendere la libertà d’espressione non significa imbastire una fittizia lotta per poter utilizzare determinate parole, nella realtà ampiamente utilizzate, il cui uso sarebbe minato dal “politicamente corretto”: sarebbe come lottare per il proprio diritto di mettersi le dita nel naso. D’altra parte, però, bisogna riflettere sul fatto che utilizzare un termine in luogo di un altro ha senso nel momento in cui linguaggio e pensiero, forma e sostanza, corrispondono; forse l’ipocrisia è ancor peggio della maleducazione e se confeziono delle patatine in una scatola di cioccolatini, i tuberi non si trasformano in Mon Cheri.

Sull’argomento, cito lo stand-up comedian Filippo Giardina, pioniere italiano di questo genere, che si è così espresso nel suo ultimo spettacolo: “Il politicamente corretto è come un sedicenne pieno di acne che va dalla mamma per chiedere un rimedio e questa lo cosparge di cipria, mentre il pus continua a sobbollire come ragù napoletano, la comicità, invece, è stata sempre l’arte più nobile, perché ha sempre fatto ridere tutti delle proprie miserie”.

Chiaramente, come ogni forma espressiva, la comicità può non piacere, può talvolta offendere, può essere inopportuna per una persona e al contempo geniale per un’altra (anche se facenti parte dello stesso gruppo sociale), ma è in ogni caso meglio della censura e del silenzio, perché a differenza di questi, affronta un argomento e dà la possibilità di rispondere, apre dibattiti e rompe tabù, può aiutare a vedere le cose in modo diverso, persino ad alleviare le sofferenze per mezzo della leggerezza.

Chiunque ha il diritto di dire “questa battuta fa schifo” ma se a una battuta si risponde con uno schiaffo, gesto che, clamorosamente, in molti hanno approvato, allora nel 2016 non eravamo poi così tanti ad “essere Charlie”. Così Ricky Gervais: “Non c’è nulla su cui non si possa scherzare, il punto è come lo fai. Le persone dovrebbero smetterla di definire una battuta offensiva e iniziare a dire ‘io la trovo offensiva’, perché niente è intrinsecamente offensivo e si tratta solo di una questione emotiva personale, niente più”. Opinione rispettabile come quella di chi sostiene che dei limiti esistono e dei paletti sono necessari.

L’umorismo, il sarcasmo, l’ironia, giocano sul contrasto tra la realtà (con le sue crepe, i suoi errori, le sue sfortune) e due idee, tutte nostre, irraggiungibili e inesistenti nel mondo immanente: la normalità e la perfezione. Le divinità della cultura classica erano invidiose degli esseri umani poiché, mortali, hanno il privilegio di vivere ogni momento come se fosse l’ultimo. E non c’è niente di più eccezionale nel rendersi conto di questo e ridere della propria finitezza, come genere e come specie. L’umorismo è la più alta forma di intelligenza. È porsi davanti a uno specchio e scoprirsi nudi, imperfetti, mortali. Tutti umani. Tutti uguali.



Raffaele Crocitti

 
 
 

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