La terra trema e, con lei, migliaia di edifici. È il 26 novembre, un martedì che potrebbe essere come tanti, ma che non lo sarà. È notte, più precisamente le 3 e 54 minuti e 11 secondi, e la terra trema, mossa da una scossa di terremoto di magnitudo Richter 6,5 e poi da un’altra e da un’altra ancora. Le ore successive saranno dominate dal panico e dalle scosse di assestamento che l’hanno generato: quattro scosse di quinto grado e altre dodici comprese tra il quarto e il quinto.
Le cifre del sisma che ha sconvolto l’area centro-settentrionale dell’Albania fanno venire i brividi: gli edifici gravemente danneggiati sono tanti, più di 1450 nel distretto di Tirana e di 900 nella vicina Durazzo. Ma, oltre alle infrastrutture distrutte, è il bilancio delle vittime che continua a preoccupare e ad addolorare il cuore della comunità nazionale e non: almeno quattromila quelli che non hanno più un tetto sotto il quale cercare protezione, sull’ordine delle due migliaia i feriti e 51 morti. Numeri agghiaccianti che portano con loro tutta l’intensità della paura che ha travolto la popolazione.
Intere sezioni delle città sono state sconvolte dalla furia cieca della calamità naturale e ridotte in un cumulo di macerie. Le immagini della desolazione sono circolate attraverso ogni via di sfogo mediatico possibile. Le campagne di sensibilizzazione e di donazione, pubbliche e private, nazionali e internazionali, in soli tre giorni hanno raccolto circa 15 milioni di euro. Le emittenti televisive hanno seguito instancabilmente il rapido sviluppo della catastrofe e dell’operazione di salvataggio delle vittime, terminata il 30 novembre, quattro giorni dopo il sisma. È stata una tragedia in diretta, quella del 26 novembre. Eppure, nonostante tutto ciò, nonostante il terribile bilancio dei danni, nessuno ha ancora parlato concretamente di quell’interminabile lista di gravi effetti con cui un’Albania in ginocchio si dovrà scontrare.
Ho sempre visto l’Albania riflessa nei vecchi condomini di Tirana, edifici ormai colorati e rinnovati, ma pur sempre, sotto quello strato sgargiante di pittura, anonimi e sbiaditi, padroni del paesaggio della capitale sin dall'epoca comunista. Sì, nella mia mente, la situazione socio-politica del paese e, quindi, l’Albania stessa sono sempre stati così.
All’alba della democratizzazione, l’orizzonte albanese era dominato da costruzioni vecchie, scialbe e monotone, realizzate secondo le regole tristi e rigide del comunismo. Il grigiore di quegli edifici, materializzazione della lunga e deprimente parentesi del regime totalitario, hanno continuato a riempire la quotidianità dei cittadini fino a quando Edi Rama non è diventato sindaco della capitale, fino a quando l’ormai primo ministro albanese ha preso la decisione di dare il via ad un percorso di rinnovamento. O forse bisognerebbe definirlo di pseudo-rinnovamento?
Toccata da un pennello tinto di colori vivaci, la monotonia di Tirana ha lasciato spazio ad un’onda caleidoscopica che è riuscita a rinnovare solamente la facciata della nazione: malgrado ogni sforzo, l’essenza è rimasta la stessa. Il cuore di quel regime che ha fatto soffrire così tanto gli albanesi e che, conseguentemente, gli albanesi odiano così tanto è sempre lì di fronte ai loro occhi ma impossibile da riconoscere tanto è camuffata, tanto è coperta da quella vivacità inverosimile di cui gli edifici della capitale sono simbolo. Nulla è stato capace di eliminare quell’anima squallida, composta di disuguaglianze e di problematiche che il comunismo di Enver Hoxha ha lasciato come unico amaro regalo. E il terremoto che ha sconvolto il territorio quel martedì 26 novembre pare quasi trasformarsi in espressione patologica di quel terribile morbo rappresentato da un’eredità matrigna che, impossibile da sradicare, si è trasformata in origine della gran parte delle problematiche che affliggono la società albanese.
Ho passato ore di fronte allo schermo di una televisione, ho cercato di capire la portata di quella tragedia che ha colpito la terra dei miei antenati e mi sono resa conto che ciò che mi ha più spaventata non sono stati i condomini ridotti in macerie e nemmeno le crepe che percorrevano gli edifici che ho imparato a riconoscere con il passare degli anni, ma è stata la disillusione che possedeva il viso delle vittime. Nei loro occhi spenti, occhi che hanno visto le memorie di un’esistenza ridursi in misere rovine, si annida un sentimento che non deriva solamente dal terribile evento, ma che si presenta come il prodotto del decennale accumularsi di violenze taciute e di soprusi impercettibili.
Ho sempre avuto l’impressione, ormai più radicata in me, che gli albanesi non si siano mai fidati delle proprie istituzioni. Non importa di che tipologia esse siano, se politiche, economiche o giuridiche. Dopo aver trovato la propria valvola di sfogo nell’ennesimo episodio di violenza, questa volta dovuto ad un disastro naturale, la disillusione di cui si è rapidamente parlato si presenta come conseguenza di un mancato raggiungimento di qualsiasi miglioramento comunitario. Le promesse della democrazia, pronunciate tanto a lungo in quel periodo di transizione che ha marcato la seconda metà degli anni Novanta, non sono state mai mantenute: la declinazione albanese del “governo del popolo” ha fallito. E continua a fallire.
In un paese dove il prodotto interno lordo è il più basso dell’area europea e dove la democrazia non è vista come una forza ma come un mero strumento di corruzione e criminalità, i danni subiti dalla popolazione e le perdite scaturite dal terrificante sisma di quel martedì di novembre minacciano di abbandonare le vittime in una situazione disperata, composta unicamente da difficoltà inimmaginabili e imprevedibili. O almeno, quando si osserva il succedersi infinito di interviste trasmesso dalle reti televisive nazionali, questo sembra essere il sentimento comune. È inevitabile notare come una tragedia di tale portata si sia rapidamente trasformata in emblema, in proiezione del desiderio popolare di rinnovamento. Chissà se da questa disperazione potrà comparire un barlume di speranza. Chissà se la fenice albanese riuscirà a prendere il volo da queste ceneri.
La storia della democrazia albanese è una storia di delusioni e fallimenti. Reduce da quattro decenni di un comunismo dal pugno di ferro, negli anni Novanta la nazione è diventata oggetto di un’onda di democratizzazione anormale, imputabile ad una rivoluzione studentesca in cui gli studenti non avevano altro che un ruolo marginale: cresciuti nell’atmosfera opprimente della dittatura, i giovani che avrebbero dovuto condurre il processo di trasformazione non avevano reali prospettive in termini sociali.
Sebbene dovessero essere ideologicamente distrutti, i vecchi casermoni sovietici di Tirana si pitturarono metaforicamente di tonalità sgargianti, plastiche e terribilmente finte: la facciata risultava, quindi, irriconoscibile, ma la struttura era pur sempre la stessa. E fu così che, invece di essere percorsa da quel senso di libertà e novità che aveva caratterizzato la Francia del ’68, l’Albania fu “benedetta” dal caos anarchico del ’97 e travolta da una profonda crisi derivante dal crollo degli schemi delle piramidi finanziarie, che innescarono disordini socio-politici e impoverirono migliaia di persone. In poche parole, fin dai suoi albori, la democrazia albanese ha minato la fiducia dei suoi cittadini, trasformandoli in meccanismi fondamentali di una macchina in perenne movimento: la macchina della corruzione.
Con l’avvento della caduta del regime autoritario, le deboli basi su cui era stato costruito il “governo del popolo” iniziarono a sgretolarsi: i leader post-comunisti, nel tentativo di detenere e accrescere il monopolio del loro potere politico, misero in piedi uno scenario patetico, un teatrino in cui venne messa in scena la vendita di mansioni politiche e lavorative. Così il deforme apparato nazionale normalizzò ciò che era anormale, legittimò ciò che era illegale. Questa è l’Albania: la razionalità non è una bussola affidabile.
Ad oggi, non è stato ancora raggiunto il livello di ottimizzazione politica necessario a definire il paese delle aquile un perfetto esempio di democrazia: stando a ciò che è stato riportato dall’indice democratico dell'Economist Intelligence Unit, la nazione non ha ancora registrato miglioramenti, continuando ad essere etichettata come un regime ibrido. La spettrale eredità autoritaria, quindi, continua a perseguitare l’Albania, causando l’indebolimento del sentimento democratico e l’aumento della disillusione nei confronti dell’élite politica. Ma come potrebbe essere altrimenti con un ex ministro processato per traffico di droga, centinaia di giudici indagati e un leader dell’opposizione sospettato di riciclaggio di denaro?
Le tensioni createsi nel territorio a seguito del succedersi di crisi politiche stanno mettendo seriamente a repentaglio la prosperità del paese, così come il suo instabile equilibrio sociale. L’incoerente percorso verso una fittizia stabilità economica e un irreale consolidamento fiscale ha plasmato un modello dalla struttura spaventosamente oscillante, in cui le riforme intraprese sembrano essere delineate da un governo con il paraocchi. I diversi stalli e le molteplici difficoltà che, derivanti da questo iter sconclusionato, affliggono l’intera storia post-comunista della nazione hanno un prezzo che essa dovrà necessariamente pagare nel lungo termine.
La criticità della situazione attuale albanese ha, inoltre, rafforzato le organizzazioni criminali parallele allo stato e, al contempo, indebolito l’autorevolezza del sistema legale: nonostante stia tentando di eliminare aspetti che minacciano le sue speranze di adesione all’Unione Europea, l’Albania continua a restare vulnerabile alla corruzione, alla crescita delle reti di criminalità organizzata e al decadimento delle deboli istituzioni governative e legali. La mancanza di organi giuridici fondamentali, quali la Corte Costituzionale e la Corte Suprema, di certo non avvantaggia il sfavorito quadro generale della nazione: da oltre un anno, l’Albania ha avviato una pseudo-riforma giudiziaria che ha interrotto totalmente l’operato del suo notoriamente inefficace sistema legale, lasciando la cittadinanza nel caos più completo. È in questo clima di confusione istituzionale e di anarchia giuridica che la febbrile attività delle organizzazioni di matrice criminale trova il proprio terreno fertile: la criminalità inizia a permeare con maggiore intensità ogni strato della società, la spirale di violenza e illegalità continua a infittirsi, il sistema di oligarchi prosegue la sua espansione, la popolazione diventa sempre più povera, sempre più debole, sempre più opprimibile.
Di matrice puramente balcanica, l’intersezione tra l’illegalità e l’immoralità, il favoritismo nepotista e la sproporzionata influenza politica sta avendo un impatto negativo sulle prestazioni della nazione. Politiche instabili, criminalità e corruzione, sistemi giudiziari incapaci di funzionare correttamente: l’Albania deve affrontare i suoi vecchi demoni al più presto, combattendo contro un’eredità che, sepolta e mai eliminata, è scoppiata con forza brutale con il crollo del regime comunista. Non c’è più spazio per altri errori né per altri passi falsi.
Durazzo e la vicina Thumanë sono state le città più colpite dal terremoto. Gran parte degli edifici sono stati gravemente danneggiati, altri sono crollati del tutto. Mentre interi quartieri in macerie tentavano di ritrovare la propria dignità grazie a squadre di emergenza giunte da ogni angolo d’Europa, la grande casa a tre piani dell’Albania, con il suo seminterrato di criminalità organizzata, il primo piano di oligarchi e il secondo di partiti corrotti, è rimasta intatta. È ancora in piedi, questa grande casa a tre piani, e pare quasi impossibile che lei, questa struttura così antica e resistente, possa vacillare.
La violenza inarrestabile che ha sconvolto l’Albania si è sfogata in trenta interminabili secondi che hanno cambiato tutto: la crosta terrestre ha continuato a tremare, spostando case di cemento, crollate inevitabilmente su sé stesse, e privando migliaia di persone della loro casa, dei loro oggetti, dei loro ricordi. Ci vorrà così tanto a recuperare ciò che è stato perso in così poco. Ancora oggi, l’Albania si trova in ginocchio e cerca di combattere, di sopravvivere in un paesaggio di macerie e rottami, di ritrovare la luce della speranza in una quotidianità inghiottita da anni dall’oscurità della disperazione. Solamente in seguito ad una tragedia così devastante, gli albanesi possono trovare il coraggio per annientare a colpi di martelli e picconi quella degradata casa a tre piani, materializzazione della loro patria corrotta.
È questo il momento giusto per riscoprire, martellata dopo martellata, una libertà che adesso viene negata. Solo dopo un dolore così grande, la tanto agognata libertà si può finalmente imporre sulla violenza, regina silenziosa del paese.
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