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L'etica dei trapianti

Nel 1902 il chirurgo francese Carrel mette a punto una tecnica per suturare i vasi sanguigni. Dopo innumerevoli sperimentazioni, nel 1967 viene eseguito il primo trapianto di cuore in Sud Africa. Si apre così la via dei trapianti, oggi al centro di un forte dibattito coinvolgente questioni di carattere etico, giuridico, medico e politico, la cui fusione innesca la necessità di trovare, per quanto arduo, delle risposte consistenti.


Ma cos’è un trapianto? Il trapianto è l’operazione chirurgica con cui si inserisce nell’organismo ospite un organo (ad esempio il cuore, il fegato, il rene e il polmone) prelevato da un donatore, di cui il primo soggetto necessita a causa di malfunzionamento o insufficienza terminale dello stesso(in tale articolo, si considera esclusivamente l’ipotesi del donatore deceduto, ma a determinate condizioni la donazione di organo può provenire anche da persona vivente).


La normativa relativa ai trapianti di organi da cadavere ha una storia lunga che inizia nel 1957 con la legge n°235, la quale consente il prelievo di organi a tal fine solo se il soggetto vi abbia acconsentito esplicitamente. Dopo all’incirca venti anni, tuttavia, viene approvata la legge n° 644, che introduce la regola del consenso presunto: il prelievo di organi è consentito a meno che il soggetto non abbia espresso il proprio rifiuto per iscritto, esplicitamente; nondimeno, si riconosce ai parenti del defunto, potenziale donatore, la possibilità di opposizione scritta (coniuge non separato o, in mancanza, figli di età non inferiore a 18 anni o, in mancanza, genitori). Ma la legge attualmente vigente in merito arriva nel 1999: essa rivoluziona il meccanismo del consenso ed obera le Aziende Sanitarie Locali di notificare ai cittadini la richiesta di dichiarare la propria volontà rispetto alla donazione di organi post mortem; costoro sono inoltre avvertiti dalle ASL che la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso alla donazione. Tale onere di informazione è essenziale (è proprio al miglioramento delle condizioni informative del consenso che la legge n° 91/1999 auspicava): il cittadino deve sapere di essere considerato donatore sia nel caso in cui abbia dichiarato espressamente la propria volontà in tal senso, sia nel caso in cui non l’abbia dichiarata (nel qual caso tale volontà verrà presunta), a meno che manchi o sia invalida la notifica della richiesta di manifestazione della volontà.


Ma a quali condizioni il prelievo di organi post mortem può considerarsi legittimo? La liceità del prelievo degli organi da una persona deceduta dipende anzitutto dal corretto e insindacabile accertamento della sua morte: difatti, solo a partire dal momento in cui questa possa dirsi avvenuta con sicurezza, si potrà procedere all’operazione. Il rispetto della dead donor rule è tassativo e non ammette alcuna eccezione, altrimenti si andrebbe incontro ad inconvenienti medici, prima che etici. E’ inevitabile quindi chiedersi: quando avviene precisamente la morte?

Dal punto di vista biologico, la morte è un processo che conduce ad un esito determinato. Dal punto di vista legale, invece, essa è un evento istantaneo, che si realizza in un momento preciso e definito. Questa dicotomia ha conseguenze rilevanti per la donazione degli organi. Tradizionalmente, si considerava deceduto il soggetto il cui battito del cuore fosse definitivamente cessato. Tuttavia, tale criterio, detto cardiocircolatorio, rendeva inservibili gli organi: esposti all’ischemia (mancanza di flusso sanguigno), questi si deterioravano velocemente, aumentando le probabilità di rigetto dell’operazione. Perciò, lo sviluppo delle conoscenze mediche ha suggerito che il criterio cardiocircolatorio fosse sostituito dal criterio celebrale, secondo il quale la morte occorre quando si ha la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. In tal modo, gli organi sono prelevati da pazienti deceduti a cuore ancora battente, risultando di conseguenza perfettamente idonei al trapianto. In ogni caso, è vietato procedere all’intervento prima che intervenga l’incontrovertibile certezza della morte del soggetto: il no touch period (assenza di attività cardiaca del paziente) va rispettato anche a costo di rendere più difficoltoso il trapianto stesso (il che accade nei casi in cui, come in Italia, tale lasso temporale sia particolarmente lungo – si pensi che nel nostro ordinamento esso ha una durata di venti minuti, corrispondente a più del doppio della media europea).


Ma la più grave difficoltà che si deve affrontare è senza dubbio il costantesquilibrio tra l’offerta e la domanda di organi da trapiantare. Tale constatazione rende infatti necessario assegnare gli organi sulla base di una scala di priorità, la cui imparzialità è quantomeno opinabile. Il principio di giustizia - secondo il quale bisogna dare a tutti pari opportunità di ricevere un organo in caso di bisogno -, teoricamente impeccabile, si scontra con il problema pratico di cui sopra, traducendosi nella necessità di una prioritizzazione di accesso al trapianto. Ma è lecito discriminare? E se anche lo fosse, è lecito farlo tra due individui che hanno lo stesso bisogno, nello stesso tempo, con la conseguenza di garantire salvezza ad uno di essi accettando il rischio di condannare l’altro a morte? Forse non sarà lecito, ma è necessario. Poche risorse e tante richieste significa solo una cosa: necessità di massimizzare l’utilità (anche se, bisogna ammetterlo, parlare di vita e di morte in questi termini appare brutale). In base al principio di utilità, alla cui luce va certamente corretto il fattore etico delle donazioni di organi, bisogna concedere il trapianto a chi ne ha massimamente bisogno, ossia al soggetto che possa trarne il massimo beneficio. Tale valutazione è di competenza dei medici, cui spetta operare tale “discriminazione” sulla base di evidenze empiriche come l’urgenza medica, la probabilità di successo dell’intervento, l’età del candidato e il tempo in lista d’attesa. Nondimeno, l’analisi di tali fattori è esposta al rischio di errori e soprusi, che ne mettono ulteriormente in dubbio la liceità morale.


La trattazione di una questione di tale complessità non può che suscitare interrogativi etici irrisolvibili. Come si concilia il meccanismo del silenzio-assenso con il principio di autonomia, esigendo quest’ultimo che sia dato un consenso esplicito al trapianto (pena lesione della dignità della persona umana)? Come si spiega la ridottissima disponibilità di organi da trapiantare in confronto all’inusitata richiesta di essi? Forse che l’altruismo sia un mero ricordo del passato del quale stentiamo a fare memoria, che ha lasciato il posto ad un disarmante disinteresse verso chi attende, invano, una speranza di vita? A tali domande è impossibile rispondere: le opinioni sono divergenti e la problematicità del tema comporta l’accettazione di ogni punto di vista, purché rispettoso dei valori fondanti della nostra società, primo fra tutti il rispetto per l’altro. E che non si dimentichi mai: donare i propri organi è trasformare la propria morte in vita degli altri.


Cosimapia Monaco

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