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Paola Scivoli

L’eugenetica e il mercato delle imperfezioni


“Tutte le volte che il destino mi ha detto no,

ho ricordato quelle lacrime versate una sera,

su una sponda lontana, da un vecchio

che forse per la prima volta guardava in faccia la sua vita".


M. Yourcenar – Memorie di Adriano





La verità è che tutti vorremo essere perfetti nel senso di compiuti; non tanto al fine di considerarci “giunti al temine” di qualcosa, ma per poterci reputare “esatti”, “accurati”, “inappuntabili” e “ineccepibili”; e si tratta spesso di un bisogno urgente, che si staglia nel panorama delle nostre esigenze.

Ecco allora che modificare il DNA del feto, così da predeterminare le caratteristiche biologiche del nascituro una delle strade percorribili per soddisfare il bisogno in questione. L’idea è, cioè, quella di “destinare” la propria prole ad un livello di “esattezza”, “inappuntabilità” quanto più vicino alla perfezione.


Orbene, per risolvere il dilemma bisogna preliminarmente analizzare i pro e i contro che potrebbero derivare dalla legalizzazione di pratiche del genere. Fornire un elenco completo e dettagliato, pare impresa ardua in questa sede, ci accontenteremo quindi di pochi - ma calzanti e pertinenti - esempi.

Sul versante dei pro si potrebbe pensare ad un argomento generale e ad almeno due sue specificazioni. Infatti un dato è ovvio: non molti resisterebbero alla possibilità di scegliere il futuro (nel nostro caso il futuro dei propri figli). E predeterminare le caratteristiche biologiche del nascituro – evidentemente scegliendo le migliori - non vuol dire esattamente scegliere il futuro, ma certamente attrezzarsi delle migliori munizioni per affrontarlo. Chi è “più sano” evita di andare incontro alla sofferenza fisica; chi è “più alto” evita di chiedere ad altri aiuto quando non arriverà all’ultimo scaffale della libreria. Insomma, se per vivere più sereni, bisogna essere di più e per essere di più basta cambiare genoma, ecco allora che cambiare genoma serve a vivere più sereni. Tutto questo, visto nella prospettiva di un genitore, è un ragionamento che non riguarda il proprio presente, ma il futuro del proprio bambino. Difficile resistere.

Se questo è l’argomento generale, sue specificazioni potrebbero essere il privilegio di non ammalarsi mai e il vantaggio di essere assolutamente conformi allo standard di perfezione socialmente percepita (quindi incarnarne le caratteristiche).

Tutti, se potessimo, vorremmo avere in corpo dei “geni imbattibili per non ammalarci mai”. A maggior ragione in un mondo così frenetico quale è il nostro - che chi si ferma è inevitabilmente perduto - ed in una realtà fortemente competitiva che da un lato ci spinge a temere chi ci sta attorno perché nostro potenziale competitor. Dall’altro coltiva l’invidia e desta la vibrante sensazione di rivalità che alimenta cattive intenzioni per cercare di soppiantare lo svantaggio. Ebbene, non essere i più sani corrisponderebbe ad un atto di sabotaggio nei confronti di sé stessi, per non parlare delle infinite implicazioni che qualunque malattia comporta e che potendo scegliere, sarebbe oltremodo preferibile evitare.

Ed infine, parallela e speculare alla volontà raggiungere la perfezione individuale, scorre quella di conquistare una perfezione sociale, per tale intendendosi l’appartenenza a determinati canoni estetici e morali cui, in precisi momenti stori e/o contesti sociali, si associa il significato di perfezione. Si pensi, ad esempio, alle diverse concezioni dell’ideale fisico femminile nel mondo. L’Oriente ammira e ricerca una corporatura tondeggiante e burrosa, tanto che molti film occidentali trovano l’insuccesso in quelle terre per via della presenza di donne magre, quindi poco attraenti.


Sul versante dei contro si potrebbero argomentare – ancora una volta senza pretesa di completezza alcuna - tre questioni: a) l’omologazione dei privilegiati; b) la svalutazione della fragilità; c) la creazione delle “razze” e la conseguente discriminazione nei confronti delle “razze imperfette”.

Circa l’omologazione dei privilegiati c’è poco da aggiungere: se ciascuno potesse scegliere cosa essere e tutti scegliessero lo stesso, una parte di mondo (chi può permetterselo) sarebbe “tutta uguale”.

Relativamente al tema della svalutazione della fragilità vale la pena spendere poche parole in più. Pascal scriveva “L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura” e così dicendo metteva in evidenza come la fragilità costituisca una delle essenze ontologiche dell’essere umano. Di primo acchito si direbbe, tuttavia, che l’essere fragile, è imperfetto, semplicemente perché frangibile, vulnerabile, quindi vincibile, caratteristiche estranee all’essere compiuto, cioè alla perfezione. Per questo motivo, il tentativo di rinunciare alla propria fragilità ricorrendo a tecniche ultra – umane parrebbe celare la volontà di rinunciare a parte della propria essenza. E si sa, è difficile (se non impossibile) ricusare sé stessi.

Veniamo infine all’ipotesi che si vengano a creare delle razze. In realtà l’impiego della parola “razza” è improprio o, per meglio dire, anacronistico; il termine in questione appartiene per lo più all’antropologia fisica del secolo scorso e della fine di quello precedente quando veniva utilizzato per indicare una popolazione o un gruppo di popolazioni aventi particolari caratteri fenotipici comuni e costituiva il fondamento delle peggiori forme di razzismo. Negli stessi anni, le politiche eugenetiche rientrano nelle agende politiche degli Stati. Si distingue allora l’eugenetica positiva (volta a favorire la riproduzione degli individui appartenenti alla “razza superiore”) dall’eugenetica negativa (volta, per converso, ad ostacolare o impedire in toto la riproduzione dei portatori di malattie o di tratti fisiognomici “indesiderabili”). La seconda pratica si realizza tramite il ricorso, alternativamente a: i) la subordinazione del matrimonio alla titolarità di un certificato medico (la Germania di Hitler); ii) la sterilizzazione di alcuni pazienti (il primo Stato a porre in essere questa pratica è l’Indiana, nel 1907); iii) le tecniche contraccettive, il cui utilizzo deve essere funzionale a spingere i gruppi sociali “indesiderati” a fare meno figli (particolarmente attiva in questo campo è la American Birth Control League, fondata nel 1921 dall’americana Margaret Sanger).

Orbene, l’utilizzo della parola razza è quindi da ritenersi scorretto, perché lo scopo dell’eugenetica oggi – cioè in seguito alla scoperta della struttura a doppia elica del DNA nel 1953– ha per obbiettivo il miglioramento del patrimonio genetico come opportunità per gli individui in quanto singoli (cioè non coinvolge né rientra nell’azione dello Stato). In altri termini, pare difficile, oggi, che il ricorso a pratiche eugenetiche, possa essere motivato dall’intento di realizzare una “pulizia etnica”. Anche perché – ed è questo un punto fondamentale – qualsiasi stato democratico di diritto rifiuta ed anzi si fa carico di allontanare, politiche o in generale interventi statali aventi derive razziste. Lo dicono anzitutto i principi costituzionali su cui si regge un ordinamento. E si badi: il fatto che talora la realtà diverga da suddetti principi non giustifica affatto, lo scetticismo nei loro confronti.

Sarebbe forse più corretto parlare di categorie, di tipologie; ma anche in questi casi l’equivoco sarebbe ad un tiro di schioppo: se il ricorso alle pratiche eugenetiche è una scelta, almeno in teoria, individuale, parlare di categoria è fuorviante perché si fa riferimento ad una collettività e non al singolo. Questo soltanto in teoria, perché come già detto il rischio di omologazione – quindi il costituirsi di una pluralità di soggetti - è altissimo.

Ma soprattutto, una eventuale maggior presenza dell’ideale di perfezione geneticamente modificato, avrebbe delle conseguenze spontanee, tra le quali si deve annoverare una possibile influenza verso le scelte procreative delle coppie che, magari consce delle proprie “imperfezioni”, potrebbero non volere dei figli cui trasmettere incompiutezza.


In conclusione, sgombrato il campo dal ritorno del razzismo, occorre chiedersi se il fatto in sé di intervenire arbitrariamente sulla natura umana (alla ricerca della buona dotazione genetica) sia da considerarsi eticamente giusto o sbagliato: questo il vero nocciolo della questione. Crediamo non esista risposta univoca, crediamo possano esistere svariate e contrastanti soluzioni. Ci limitiamo, allora, a segnalare tre punti che troviamo particolarmente interessanti.

Il primo riguarda la libertà di scelta dell’individuo geneticamente modificato: vero è che nel corso della sua esistenza questi potrà prendere le scelte che vorrà. Egli potrà, senza ombra di dubbio, autodeterminarsi rispetto alle proprie volizioni. Ma altrettanto vero è che la costituzione fondamentale dell’individuo geneticamente modificato – cioè il suo patrimonio genetico – è il frutto di un disegno etero disposto in assenza del suo consenso. Questo è giusto?

Il secondo concerne l’eguaglianza tra costituzioni fondamentali, o, più precisamente, il fondamento di quell’eguaglianza (costituito dalla casualità con cui si forma il proprio patrimonio genetico). La dotazione arbitraria di un diverso patrimonio genetico si annulla l’eguaglianza. Si ottiene, per converso, una diversità che incide su infiniti aspetti della nostra quotidianità: ogni giorno siamo immersi in una realtà fortemente competitiva (si tratti del lavoro, dell’università, di un concorso). Non essendo tutti uguali, non finiremo forse per operare in un regime di concorrenza imperfetta? Non solo, l’esecrabile discriminazione che intendiamo evitare emancipando il significato di eugenetica dal concetto di razzismo, non è forse destinata a risorgere a discapito di chi resta geneticamente meno perfetto? Questo è giusto?

Il terzo: è giusto che l’accesso a queste tecniche sia condizionato alla disponibilità economica del singolo? Se fosse gratuito, sarebbe ancora così alto il rischio discriminazione?

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