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Paola Scivoli

La Legge e la Giustizia - L'eterno dramma di Antigone

Aggiornamento: 16 feb 2020

Dinanzi alla settima porta di Tebe, Eteocle e Polinice, figli dello stesso padre, morirono in battaglia l’uno per mano dell’ altro. Il primo, divenuto re, bandì l’altro dalla polis, così da sottrargli il titolo di sovrano che anche a lui spettava in forza della diarchia ad anni alterni. Polinice decise allora di muovergli guerra, alleandosi al fianco degli acerrimi nemici della città.

In seguito allo scontro fratricida, il regno passò a Creonte, lo zio dei due avversari, il quale vide nelle membra di Polinice gli intenti di un disertore, ed un’ onta troppo grave per la sua città.

Il re ordinò quindi di non concedere sepoltura a Polinice; e chi avesse violato il decreto sarebbe stato condannato a morte.

Eppure, Antigone, sorella degli sventurati, trasgredì il precetto, forte del fatto che disattendere la legge dell’uomo fosse necessario per onorare la giustizia degli dei: fiera, caparbia e irremovibile difronte alla minaccia del sonno eterno, coprì con la sabbia il cadavere di Polinice.

Creonte, venuto al corrente della vicenda , prima condannò a morte la nipote, poi decretò che venisse murata viva e quando decise di ravvedersi fu troppo tardi: Antigone si era già impiccata.


L’eterno dramma di Antigone racconta la natura ancipite del concetto di Giustizia: immanente nella lettera delle leggi scritte e giuridicamente vincolanti, trascendente nell’apparato di leggi morali, non scritte e ciò nondimeno condivise per il fatto che tutti apparteniamo ad una determinata comunità. Tanto le une, quanto le altre, se non rispettate, rendono colpevoli.

Nell’ incompatibilità, se non addirittura nell’antagonismo, tra l’una e l’altra parte si consuma la tragedia sofoclea; la stessa incompatibilità che oggi, tanto lontani dal monte Olimpo, esiste ed interroga ancora.

La legge è un fatto e certamente risponde ad un' istanza di Giustizia “morale” (spesso, quella della maggioranza); ma di per sé non può dirsi giusta o sbagliata, perché “la giustizia - secondo il filosofo Massimo Cacciari - non può essere ridotta a fatto”. Ciò, d’altra parte, non esclude che quel fatto neutro, benché storicamente orientato, sia suscettibile di un’ interpretazione rispondente ad una Giustizia diversa. Per questo - suggerisce il prof. Francesco Viganò, giudice della Corte Costituzionale - bisogna che l’operatore del diritto stia bene in guardia da “un’interpretazione cartesiana” del nomos (il diritto scritto), onde evitare di trascurare "l’umano sentire" che spesso contrasta con la Giustizia del diritto (quella, cioè immanente nella lettera). Aggiunge ancora: “la lettera uccide, lo Spirito dà vita" (II lettera di San Paolo apostolo ai corinzi).

Antigone, però, non cerca un' interpretazione. Si batte e poi muore, perché il nomos deve soccombere alla dike (la Giustizia trascendente): non c’è rimedio per una legge ingiusta.

E in effetti, il decreto di Creonte non solo ignora le “leggi non scritte e insopprimibili degli dei”, ma esprime anche la sua divinizzazione, “io sono il mio Zeus”, afferma fiero il sovrano. Per altro verso è un atto comunque legittimo: Creonte, re di Tebe, aveva il potere e il dovere di dettare leggi. Per di più le sue scelte non sono poi così distanti dai costumi dell’epoca: Polinice era un traditore e un disonore per la civiltà della vergogna (la civiltà greca) e per questo non andava di certo celebrato. Ma Antigone difende la dignità di un fratello morto, non le importa l’onore degli altri (che invece vivono ancora).

Un uomo e un popolo. La dignità e l’onore. Chi ha torto e chi ha ragione? La risposta è presto detta: dipende.

Dipende dal fatto che il nomos coesiste con un apparato di valori in continuo mutamento (ed in qualche modo portatori della dike) , generalmente espressi in principi od in clausole generali o generalissime: un’eventuale collisione tra nomos e dike, pertanto, renderebbe l’applicazione del diritto ingiustificata e ingiusta.

Il diritto costituzionale - ricorda ancora Viganò - intende colmare questo potenziale “iato tra nomos e dike”, perché sottoponendo il nomos ad un vaglio di conformità (il giudizio di costituzionalità) con i principi costituzionali, che danno voce all’insieme di valori morali fondanti e spesso inespressi di una comunità, cerca un ripristino della perduta (o mai avuta) armonia.

Ci sarà dunque garantita in eterno Giustizia? Abbiamo forse risollevato le sorti di Antigone? No. O quanto meno non in termini assoluti.


Ciò che forse più conta è proprio il fatto di costruire criticamente i termini dello iato, "con coraggio e con prudenza” (Cartabia).

Così da non dimenticare che di giustizia non ne esiste una sola.


Paola Scivoli


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