Dal Covid all’invasione russa dell’Ucraina, abbiamo dovuto fare i conti con la disinformazione. Le nuove guerre sono “info-wars” digitali, i nuovi soldati le fake news. Ma qual è l’impatto del “falso” sulle nostre vite? Chi è l’assassino della verità? Nel tentativo di rispondere a questa domanda, siamo consapevoli del rischio, fatale, che il colpevole assomigli all’investigatore.
Si sente spesso parlare di fake news, fenomeno che suscita potenti interrogativi e giustificate apprensioni. Trovarne una definizione condivisa e auto-esplicativa risulta complesso; tuttavia, possiamo convenire che siano notizie false, diffuse tramite i media, al subdolo scopo di manipolare le opinioni altrui e ingenerare false credenze.
Le fake news non sono un fenomeno nuovo, bensì nascono con l’informazione stessa. Tuttavia, nuova è la modalità di diffusione: in passato, esse erano prodotte da un ente (canale radio/canale tv) e rivolte in maniera monodirezionale agli utenti-bersaglio; oggi, invece, tali utenti sono i protagonisti della diffusione, facilitata dalle funzioni di retwitt e repost che i social network prevedono. La separazione di ruoli tra fabbricatore e diffusore di fake news, un tempo coincidenti,solleva una delicata questione etica: mentre la responsabilità del primo soggetto è autoevidente, non lo è altrettanto la responsabilità del secondo. Un primo orientamento fa propria la tesi per cui re-postare fake news non implichi aderirne al contenuto, perché si può condividere una notizia anche per smentirla o per fare ironia. Un secondo orientamento, invece, ritiene che re-postare un’informazione significhi apprezzarla, avvalorarla. Da tali due orientamenti deriva o meno una sorta di “responsabilità etica” per l’affermazione del falso: da questa può però sfuggire chi condivida una notizia per motivi diversi dalla dimostrazione del proprio apprezzamento, e manifesti in maniera non equivoca il suo dissenso.
Ma che impatto hanno le fake news sulla nostra società? La loro natura mimetica (capacità di apparire plausibili) e capziosa (capacità di attrarre l’attenzione facendo leva sulle emozioni) le rende una grave minaccia, anzitutto a livello sociopolitico. Tali notizie sono state utilizzate come mezzo di distorsione del dibattito pubblico soprattutto in momenti delicati, come le elezioni, e hanno provocato un vuoto di fiducia, da parte dei cittadini, nei confronti di tutte le fonti di informazioni, e più in generale un grave disorientamento epistemico.
Ma il fenomeno delle fake news ne coinvolge altri, quali le filter bubbles e le echo chambers, dalle conseguenze altrettanto preoccupanti. Gli algoritmi dei social network tendono a creare “bolle” impermeabili ad opinioni divergenti rispetto a quelle dell’utente che ne fa uso, il quale si trova dinanzi ad uno spazio virtuale “personalizzato” che ne memorizza le preferenze, riproponendole in un ciclo continuo. Gli effetti sono socialmente disastrosi: proliferano i pregiudizi nei confronti del diverso, si annienta il dialogo e si demonizza l’altro come un “nemico”. Insomma, la disinformazione evolve in conflitto.
Un impatto così negativo giustifica una forte apprensione nei confronti delle fake news. Come riconoscerle, come affrontarle? Smascherarle non è affatto semplice, anche perché occorre un intervento non solo individuale, ma anche aziendale e, più in generale, governativo.
A livello individuale, bisogna promuovere l’alfabetizzazione digitale. Internet è un mezzo per il cui utilizzo non è previsto alcun corso di formazione, e al cui errato impiego possono seguire conseguenze catastrofiche. Ciò innesca l’impellentenecessità di incrementare i momenti di educazione istituzionale, in primis scolastica, all’uso dei social, affinché ciascuno sappia distinguere le fonti di informazioni affidabili e autorevoli da quelle che non lo sono.
Ma la responsabilità della diffusione delle fake news è anche delle aziende che gestiscono i social network, i cui algoritmi favoriscono la quantità di click and share a scapito della qualità dei contenuti, con l’esclusivo scopo di far profitto. Un meccanismo così strutturato standardizza gli utenti e, dopo averli “scannerizzati”, propone loro esclusivamente notizie che rafforzino le loro opinioni. Molte conferme, poche smentite: il confronto è annientato. Le aziende dovrebbero dunque dotarsi di un codice di condotta etico che preferisca, a guadagni e popolarità, un’informazione rispettosa della verità.
Per quanto concerne gli interventi governativi, si pensi alla censura. Si tratta di un’operazione estremamente delicata che deve realizzarsi nel rispetto dell’equilibrio tra due necessità: la garanzia della libertà d’espressione, da una parte, e la protezione della corretta informazione, dall’altra. D’altronde, la censura non può costituire l’unica soluzione, sia perchéinterviene a posteriori, quando le fake news hanno già raggiunto moltissimi utenti, sia perché censurare miliardi di post èirrealistico. Piuttosto, i governi dovrebbero preoccuparsi di finanziare programmi educativi per i cittadini, volti ad un uso responsabile del web.
Alla fatidica domanda “di chi è la colpa?” non si può trovare una risposta definitiva. I social network, le aziende, noi tutti siamo rei della morte della verità. Perché abbiamo plasmato un’era, quella della Postverità, nella quale dalla pubblica opinione riecheggia più “sensazione” che “oggettività”. L’informazione versa in una profonda crisi di legittimità: scivolata sempre più verso l’intrattenimento, appiattitasi al potere, diventata il braccio armato della propaganda. I media, un tempo cani da guardia della democrazia (e della libertà d’espressione che ne è il presupposto), sono diventati fedelicani da compagnia. D’altro canto, è triste constatare che la libertà d’espressione sia lacerata in presunzione di possesso di verità assoluta. Essere informati si risolve in una rancorosa esibizione di appartenenza: se non ti schieri e non offendi il diverso, non sei realmente convinto. E la nostra responsabilità, collettiva, ci cattura quando pieghiamo la complessità dei fatti alle nostre ragioni e, pur di contrastare l’avversario o assaporare un po' di notorietà personale, rifiutiamo di cogliere le connessioni tra gli eventi.
Eppure, la verità che crediamo di possedere ci sfugge nell’esatto momento in cui preferiamo la certezza ai dubbi, l’abitudine alla novità, la comfort-zone alla diversità. L’era della post-verità è quella, arrogante, che al silenzio preferiscel’urlo della falsità.
Cosimapia Maria Monaco e Federica Borgini
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