‘’Vuoi fa’ il maschio? E mo ti faccio vede’ come abbuscano i maschi”.
Queste sono le parole che il 15 gennaio 2020 si sente urlare addosso Giulia Ventura, trentunenne potentina, prima che due ragazzi le procurassero diverse lesioni al volto.
Il 28 giugno 2020, a Pescara, un anonimo venticinquenne che passeggiava con il proprio fidanzato viene ricoverato in ospedale, con la mascella fratturata, a seguito di uno scontro fisico con sette ragazzi.
Pochi mesi dopo Maria Paola Gaglione, ventiduenne di Caivano, viene uccisa dal fratello perché fidanzata con un ragazzo transessuale: ‘’era infetta, volevo darle una lezione’’.
E ancora, il 20 luglio 2020 Emanuel Alves Rabacchi, transessuale di 48 anni, viene ritrovata morta nella sua abitazione con i segni di oltre 50 coltellate sulla schiena, il torace e l’addome.
Solo tre giorni prima Giorgia Meloni, leader del partito politico Fratelli d’Italia, dichiarava fermamente in un’intervista: ‘’non possiamo dire che, nella realtà italiana di oggi, gli omosessuali vengano discriminati: abbiamo fatto passi da gigante’’.
È questo il desolante quadro sociopolitico in cui si inserisce il Disegno di Legge Zan in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere.
Il déjà vu non è ingiustificato: Alessandro Zan è solo l’ultimo dei portavoce di una minoranza per anni rimasta invisibile agli occhi della classe dirigente italiana.
Ventiquattro anni fa Nichi Vendola presentava per la prima volta una proposta di legge atta a modificare, al pari di quella attualmente in discussione, la disposizione Mancino sulle discriminazioni. Undici anni fa Anna Paola Concia combatteva ormai da 22 mesi in Parlamento e per ben due volte vedeva affossato il suo progetto in materia di omobitransfobia. Sette anni fa il medesimo disegno di legge, stavolta promosso da Ivan Scalfarotto, veniva approvato in Camera per poi arenarsi in Commissione Giustizia e risolversi, ancora una volta, in un nulla di fatto.
Pertanto il Disegno di Legge Zan, presentato per la prima volta alla Camera dei Deputati in data 2 maggio 2018, risulta essere l’ennesima, stanca, disperata richiesta da parte di una minoranza di essere tutelata. E sebbene l’eco del dissenso di Lega e Fdi risuoni assordante tra le mura fisiche del Parlamento e quelle digitali dei nostri device, qualcosa oggi cambia: il 4 novembre il disegno di legge viene approvato dalla Camera, l’Italia sembra finalmente risvegliarsi dalla cecità in cui per anni ha versato, la comunità lgbtq+ grida di gioia, tira un sospiro di sollievo e spera che un giorno, presto, le iniquità che continua a subire cessino o che, quantomeno, queste vengano sanzionate correttamente.
Perché di correttezza in fondo si tratta: l’art.3 della nostra Costituzione implicitamente sancisce il principio di non discriminazione, con il quale il legislatore si ripromette di trattare in modo eguale, situazioni uguali e, in modo diverso, situazioni diverse. Su tale assioma poggiano gli articoli 604 bis e ter del codice penale italiano volti a sanzionare gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali.
Così facendo, conformemente ad una visione non solo formale di uguaglianza (la generica parità di trattamento dinnanzi alla legge), ma sostanziale di essa (per cui il diritto interviene a favore di coloro che di fatto uguali non sono) lo Stato si premura di tutelare, in misura proporzionale alle loro esigenze, soggetti che altrimenti verrebbero a trovarsi in una posizione di svantaggio rispetto ai più.
Il Disegno di Legge Zan, da poco approdato in Senato, consta di nove articoli: nei primi cinque prevede un’estensione orizzontale delle discriminazioni sopracitate, affiancandovi quelle ‘’fondate sul sesso, il genere, l’orientamento sessuale, l’identità di genere e la disabilità’’.
Indubbiamente è questo il reale cuore pulsante della legge: tali articoli rendono infatti punibili gli atti di discriminazione perpetrati in ragione dell’identità di genere o l’orientamento sessuale della vittima e puniscono con pene più severe chi commette altri reati per gli stessi motivi.
E dunque, a titolo d’esempio, il testo dell’art.604 bis del c.p. – «salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito […] chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi» - verrebbe integrato, dalla frase «oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità».
Sono queste le poche parole che lo scorso 4 novembre 2020 inducono decine di deputati ad alzarsi, tra urla e spintoni, sbandierando cartelli che riportano la parola ‘libertà’ e portandosi un bavaglio alla bocca: la legge Zan è liberticida, inibisce il diritto d’opinione dei cittadini italiani, adesso non più liberi, ahimè, di propagandare la superiorità del ‘’maschio etero bianco’’.
E dunque d’un tratto si fa motto del centro destra il termine ‘libertà’: una parola potente, figlia di anni di lotte e battaglie, pregna di aspirazioni e traguardi faticosamente raggiunti e che oggi tristemente viene urlata a gran voce da personaggi del calibro di Giorgia Meloni o Matteo Salvini.
Eppure la tanto mitizzata libertà, fatta bandiera da Lega e Fdi, tradisce numerose restrizioni a discapito dell’immagine che se ne vuole dare. Essa, difatti, non è sinonimo di illimitatezza e a-regolazione, quanto piuttosto di coordinamento: sussiste laddove si pongono limiti all’ingerenza di altri soggetti, altri diritti e altre libertà nella sfera personale dell’individuo.
Se dunque ‘LA libertà’ in quanto unitaria astrazione, benché seducente, trova poco riscontro in una società permeata da tante spinte pluraliste quale è quella contemporanea, divengono meritevoli di attenzione ‘LElibertà’: tante e dissimili, che il diritto si occupa di contemperare in un quadro quanto più coerente possibile.
E per quanto sia vero che una di queste sia la libertà di manifestazione del pensiero, è altresì innegabile che un’altra possibile interpretazione di ‘libertà’ sia interdipendente con il concetto di uguaglianza. Interdipendenza che la nostra stessa Costituzione sottolinea là dove impone alla Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana’’.
Ebbene il Disegno di Legge Zan sottolinea il rapporto di complementarità tra le due nozioni, venendo in soccorso di coloro che di quell’uguaglianza non godono e che in ragione di ciò rivendicano una libertà tuttora negata.
Ad ogni modo, al di là dell’istrionismo parlamentare degli ultimi giorni, sul piano giuridico le numerose rimostranze avanzate rispetto al Ddl Zan sono riassumibili in due diverse critiche.
La prima, di tipo tecnico, è relativa alla vaghezza della legge: il linguaggio impiegato sarebbe confuso e approssimativo, potenzialmente oggetto di interpretazioni creative da parte dei giudici che potrebbero arrivare, addirittura, a sanzionare chiunque si trovi in disaccordo con determinate inclinazioni individuali, sfociando così nella fatidica minaccia liberticida.
In merito a tale osservazione è opportuno elaborare almeno tre riflessioni.
In primo luogo più volte è stato ribadito il confine, sottile ma netto, tra ‘libertà di espressione’, rimasta intatta, e ‘istigazione all’odio e alla violenza’ che si vuole al contrario scongiurare. Uno dei fattori che contribuisce ad erigere il muro tra i due concetti è senza dubbio il principio di offensività il quale intima il giudice a considerare come condotte penalmente rilevanti esclusivamente quelle idonee a recare un’offesa al soggetto giuridico. In buona sostanza verrebbe punita ex art.604 c.p. un’associazione che pubblicando foto di un attivista gay invita i suoi seguaci a pestarlo, non chi potrà ancora liberamente dichiarare ‘’l’utero in affitto è un abominio, così come il matrimonio omosessuale’’.
Secondariamente, l’indeterminatezza di cui si parla è in fondo peculiarità della legge stessa: qualunque testo normativo, purtroppo o per fortuna, si presta ad essere interpretato ed eliminare la benché minima ambiguità sarebbe impossibile.
Infine è bene notare come il Disegno di Legge Zan non inventi nulla, piuttosto integri: gli articoli 604 bis e ter del codice penale sono presenti nel nostro ordinamento ormai da svariati anni e godono, pertanto, di una giurisprudenza già ben consolidata che certamente offre sufficienti strumenti per chiarire il potenziale margine di ambiguità.
La seconda critica verte sulle aggravanti previste per i reati commessi in ragione dell’orientamento sessuale o l’identità di genere della vittima. Si cerca di porre sullo stesso piano le violenze perpetrate a scapito di, a titolo d’esempio, una persona omosessuale e una persona eterosessuale, sostenendo che tra le due non viga alcuna disparità.
Matteo Salvini, feroce promotore di questa tesi, in un’intervista asserisce sardonicamente: ‘‘se vengo preso a schiaffi io o un omosessuale non vedo la differenza’’.
Eppure la differenza è lapalissiana: sebbene entrambe le violenze debbano essere sanzionate, la seconda merita un aggravante di reato se motivata da inclinazioni discriminatorie in quanto facente parte dei cosiddetti Crimini d’Odio: azioni delittuose il cui obiettivo non è unicamente procurare un danno alla persona ma, attraverso esso, minare o annientare l'identità – culturale, etnica o sessuale che sia – della vittima. La Legge, così facendo, interviene laddove la cultura non basta: rispondendo al principio di eguaglianza sostanziale e allo scopo rieducativo della pena il Ddl Zan intende ri-equilibrare una situazione attualmente sbilanciata.
Negare questa ovvia discrepanza non significa certo non vederla o comprenderla. Significa, piuttosto, scegliere di non farlo, ignorare il problema, accantonarlo, posticiparlo a tempi più prosperi. Perché in giorni amari come quelli che stiamo vivendo Giulia Ventura, Emanuel Rabacchi e Maria Paola Gaglione devono seguitare, tacitamente, a farsi carico di un peso dato dalle loro inclinazioni individuali. E per quanto ormai avvezzi a convivere con tale disagio, rassegnati al fatto che le loro spalle dovranno essere più forti, cercano quantomeno di rendere nota la loro condizione di diversità. La stessa condizione che una società spietata ha affibbiato loro e che, con le sue inevitabili conseguenze, deve essere riconosciuta dal diritto.
E per quanto conveniente sarebbe pensare che la diversità non esista, almeno non in qualità di tratto oggettivo, ma si tratti di un semplice costrutto sociale, risiediamo in un mondo tangibile dove costrutti, standard e idee diventano fatti. Che la chiamiamo dunque diversità, tratto caratteristico o segno distintivo poco cambia: è bastato a far sì che quindicimila innocenti morissero con un triangolo rosa sul petto nella Germania nazista, è bastato affinché cinquanta civili perdessero la vita in un Gay Club ad Orlando per mano di un serial killer, è bastato quando in Cecenia, nel 2017, un centinaio di persone, macchiate dal loro solo orientamento sessuale, vennero detenute e sottoposte all’elettroshock: ‘’ci dicevano che eravamo cani che non meritavano di vivere’’.
E se dunque il mondo delle idee non esiste, la diversità non può essere ignorata, ma piuttosto compresa, attenzionata e salvaguardata sperando che un giorno, presto, non ce ne sarà più il bisogno.
Davide Cocco
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