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Immagine del redattoreLetizia Hushi

La vergogna di essere diversi, di essere sé stessi

Vergogna, emarginazione ed ostracismo sono solamente una parte di ciò che ogni giorno le persone affette da malattie mentali sono costrette a sperimentare a causa di una società crudele che, ancora troppo disinformata, non sembra pronta ad accettarli pienamente.

Una condanna divina. Una punizione che il karma ha voluto imporre . Un segno del demonio, con cui l’individuo avrebbe stretto un patto.

Il fenomeno della stigmatizzazione della malattia mentale ha una lunga storia alle spalle e, nonostante il progresso culturale che l’umanità si è trovata a percorre negli ultimi secoli, continua ancora a vivere, aleggiando nelle menti di una popolazione fin troppo diseducata.

Nato dall’ignoranza che deriva dalla paura e dalla conseguente apatia nei confronti di una condizione che si etichetta come altra” e “diversa”, lo stigma sulla salute mentale in Italia sarebbe dovuto scomparire, già nel 1978, con la legge n.180/78 c.d. Legge Basaglia. Una legge che ordinava la chiusura di ogni manicomio della nazione. Una legge che avrebbe dovuto dire basta alle semplificazioni crudeli e umilianti di cui gli individui affetti da malattie mentali erano da sempre stati vittime. Una legge che avrebbe finalmente trasformato il “pazzo” in una “persona normale”.

Franco Basaglia, professore, psichiatra e direttore dell’ospedale psichiatrico della città di Gorizia, fu il primo a rifiutare l’inumanità dei metodi di cura (prima tra tutte la terapia di elettroshock) dei disturbi mentali: a partire dagli anni Sessanta, il professore si ribellò alle bestialità della legge n. 36 del 1904 (le cui disposizioni legislative dominavano il panorama clinico italiano dal 1947) e che aveva come unico scopo quello di proteggere la società dal malato, “pericoloso a sé e agli altri”. Così, con il passare del tempo, il paziente si era trasformato in un individuo da contenere, da annientare, da sottoporre ad un processo di disumanizzazione. Il paziente non aveva più accesso ai diritti basilari, non era più considerato una persona, non esisteva più.

La prigionia del manicomio e, con essa, l’approccio sanitario di cui si elevava a icona dovevano essere necessariamente superati. 

Il primo passo verso questa meta giunge nel 1973 con la fondazione del movimento Psichiatria Democratica. Supportato da parte della comunità scientifica, il messaggio di uguaglianza difeso coraggiosamente e determinatamente da Basaglia riuscì a scuotere l’opinione pubblica italiana, che si rese conto dei benefici sociali che l’applicazione del modello promosso dallo psichiatra avrebbe portato con sé. Il cambiamento tanto drastico quanto necessario che sconvolgerà il desueto sistema sanitario italiano arrivò invece nel 1978 con la promulgazione della già citata legge n.180/78, simbolo di una rivoluzione che impose l’adozione di una psichiatria alternativa, più umana. A partire dalla fine degli anni Settanta, quindi, i manicomi iniziarono a svuotarsi e ad essere chiusi, uno ad uno. Eppure, nonostante le porte di quelle strutture infernali fossero state rese inaccessibili per sempre, lo stigma sulla salute mentale restò sempre lì. La società non smette ad emettere il proprio verdetto disumano, continuando ad essere particolarmente crudele nei confronti di individui con disturbi di personalità, continuando ad alimentare uno stigma sociale che porta alla negazione dell’accettazione sociale di quest’ultimi.

Oggi i manicomi non ci sono più, ma la cura dell’opinione pubblica nei confronti dell’infermità mentale resta ferma in secondo piano.

Definito da Erving Goffman come “un attributo che scredita profondamente”, che riduce l’individuo ad “una persona contaminata” e ad “un’identità viziata”, lo stigma sociale perseguita l’infermo attraverso conseguenze dirette sulla salute mentale che creano un danno di gran lunga peggiore rispetto a quello derivante dalla malattia mentale stessa. La discriminazione, in altre parole, annulla ancora di più una persona già spinta ai margini della propria famiglia, della propria comunità, della propria nazione. Gli individui costretti a combattere le malattie mentali, indipendentemente dalla gravità delle stesse, quindi, vengono dubbiamente sfidate. Da un lato, come anticipato, si trovano a lottare con i sintomi disabilitanti che derivano dalla malattia. Dall’altro, sono obbligati a superare i crudeli stereotipi di cui sono protagonisti. In aggiunta a tutto ciò, i giudizi negativi appena citati vengono interiorizzati dalla vittima e si trasformano in fantasmi della propria mente, ombre che continuano a ossessionare e a peggiorare la propria condizione clinica. Questi spettri potrebbero essere definiti come stigma auto-inflitto, ovvero la vergogna di essere diversi, di essere sé stessi.

I ritratti che vengono instancabilmente trasmessi di malati mentali sono quelli di esseri alieni e pericolosi, terribilmente diversi e profondamente sbagliati. La crudele generalizzazione dei media è pressapochista, eccessiva, confusa. Così, talvolta, i sintomi vengono irrealisticamente aggravati: quelli che soffrono di depressione sono perennemente guidati da pensieri suicidi, quelli che soffrono di schizofrenia da allucinazioni visive terribilmente reali (in realtà, tra il 60 e l’80% delle persone affette sperimentano unicamente illusioni uditive). Così, talvolta, i sintomi vengono irrealisticamente semplificati: il disturbo ossessivo-compulsivo, per esempio, viene raffigurato come una mera e innocua attenzione per la pulizia e il perfezionismo. In tal modo, i media promuovono la malattia mentale o come un fardello più grave o come un problema meno grave di quant’è in realtà. In altre parole, essi veicolano una bugia solo perché questa sembra avere più appeal sul pubblico.

Non si sta parlando solamente di una questione sociale. La stigmatizzazione dell’infermità mentale è riflesso della profonda crisi sanitaria che, da decenni, interessa l’Italia, che deriva dai numerosi taglia alla spesa pubblica destinata al settore sanitario e che ha portato ad un indebolimento generale della rete territoriale di servizi destinati alla cura della malattia psichica.

L’imprevedibile viene concepito come incontrollabile. Proprio per questo, nella mentalità comune, il malato mentale deve essere rinchiuso. Il desiderio che dominava la società di ieri e che continua a dominare anche la società di oggi è il bisogno di eliminare e neutralizzate il “diverso”. Non c’è alcuno spazio per la rieducazione, la riabilitazione e la risocializzazione. Scarseggiano le campagne di educazione e di informazione rivolte all’intera cittadinanza. Per tale motivazione, i luoghi in cui vengono erogati i servizi destinati agli infermi (ricordiamo, il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura e le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, dedicate unicamente agli individui che, afflitti da una malattia mentale, hanno commesso un crimine per cui sono stati successivamente condannati al carcere) restano strutture chiuse e perennemente monitorate, sicure per l’individuo che è tutelato lì dentro e, specialmente, per la società lì fuori. Ciò che resta della rete di servizi, invece, è costituito dalle famiglie degli individui malati, che spesso si rivelano essere impreparate e, quindi, assolutamente inadatte.

Secondo diversi esperti, inoltre, la rete dei servizi sociali a cui si è brevemente accennato non sempre rappresentano un’attività efficiente: un paziente su 10, una volta terminato il periodo di ricovero, fallisce nel suo percorso di recupero. Un fallimento per tutta la cittadinanza, quindi.

Ad oggi, psicologi e psichiatri di tutto il mondo affermano che il metodo più efficiente per ridurre la magnitudine della stigmatizzazione del malato mentale e, quindi, per favorire il reinserimento attivo del malato stesso all’interno della società è rappresentato dal contatto umano. Sono numerose le analisi di psicologia sociale che hanno confermato i benefici della comunicazione con gli altri, quali l’aumento dell’autostima, dell’empatia e del senso di accettazione, quali la riduzione dell’ansia e del senso di inadeguatezza.

È la società civile, quindi, ad avere la più grave delle colpe. È per colpa della società civile che l’ostracismo nei confronti dell’individuo avente una malattia psichica continua ad essere presente. “Penso che la base della follia sia questa continua frustrazione dei rapporti. Questo emarginare la persona ritenuta malata. Il giudizio sulla persona malata, di solito, viene da persone che non sanno assolutamente cosa sia [la malattia, Ndr]”, così dichiarò Alda Merini, anche lei malata mentale. E, al contempo, una poetessa, una donna.

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