Una tematica tanto seria e attuale quanto poco illuminata dai riflettori dei media è lo sfruttamento del lavoro, in particolare quello minorile. Secondo i dati dell’Unicef, sono oltre 160 milioni i minorenni costretti a lavorare, di cui 73 milioni coinvolti in attività pericolose che possono mettere a rischio la loro salute, sicurezza e morale, con un incremento di oltre 8 milioni negli ultimi quattro anni. Ma che cosa è e quando si parla di lavoro minorile? Lo sfruttamento minorile è definito come una qualsiasi attività lavorativa che vieta lo studio e le libertà dei minori, influendo negativamente sul loro sviluppo psicofisico . Il fenomeno affonda le sue radici nel passato, a partire dalla preistoria, venendo però riconosciuto come problema sociale soltanto molto tempo dopo, con l’avvento della rivoluzione industriale: durante quel periodo, i bambini erano apprezzati e scelti per le dimensioni ridotte dei loro corpi che li rendevano più adatti degli adulti per alcuni lavori che richiedevano particolare destrezza manuale. Le condizioni di lavoro erano però così degradate e povere da esporre spesso i giovani lavoratori a tubercolosi e altre patologie tra cui asma e rachitismo. Secondo delle indagini condotte da diversi storici tra cui Paul Bairoch, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento lo sfruttamento minorile raggiungeva il suo culmine con oltre un milione di bambini impiegati in Inghilterra e un bambino lavoratore su sei negli Stati Uniti. A partire dai primi anni del XX secolo si è assistito al proliferare di regolamentazioni volte ad arginare lo sfruttamento minorile, introducendo limiti all’orario di lavoro giornaliero e vietando ogni forma di lavoro al di sotto di una certa soglia di età. Nel nostro ordinamento per esempio, l’art 37 della Costituzione dispone che la legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato e che la Repubblica tutela il lavoro dei minori con particolari norme garantendo ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione. Inoltre, nel novembre del 2000 entrava in vigore la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro del 1999 che afferma la necessità e l’urgenza di adottare delle strategie per eliminare le peggiori forme di lavoro minorile. Nonostante questi provvedimenti e gli apparenti passi avanti compiuti in materia, ad oggi il problema è più che mai concreto: si stima infatti che i lavoratori possano aumentare di oltre 9 milioni entro la fine del 2022. La pandemia ha inoltre incrementato sensibilmente questo pericolo dal momento che tra le principali cause di diffusione del fenomeno si annovera la povertà: molti genitori non hanno alternative se non mandare i propri figli a lavorare. I paesi che sono più colpiti da questo fenomeno sono l’Africa e l’America latina, dove i bambini sono costretti a lavorare principalmente nel settore dell’agricoltura e del lavoro domestico, ma anche l’Italia non ne è esente: secondo quanto rivelato da un’indagine dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza vi sarebbe una apparente correlazione tra abbandono scolastico e lavoro minorile che riguarda in particolar modo i bambini tra i 14 e i 15 anni. Lo sfruttamento minorile è stato inoltre al centro di numerose controversie riguardanti i cosiddetti ‘sweatshops’, ovvero luoghi di lavoro (in particolare nell’industria tessile) caratterizzati da condizioni di
lavoro povere e socialmente inaccettabili, che hanno visto protagonisti grandi marchi di moda tra cui H&M, Uniqlo e di recente il marchio fast fashion SHEIN. Proprio al fine di spezzare la catena di povertà ed esclusione sociale che consente la diffusione di tale fenomeno, l’obiettivo 8.7 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite richiama alla necessità di intraprendere azioni ed adottare misure per eliminare le peggiori forme di lavoro minorile entro il 2025.
Sofia Gustapane
Comments