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MATERNITA' O PATERNITA': PERCHE' NON ENTRAMBE?

Let me tell you a story


È proprio così che, allo Women’s Forum Global Meeting dello scorso novembre, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha raccontato la strana vicenda per cui, in Germania, più di un terzo dei papà, trascorrano parecchio tempo a casa con i figli, fin dalla nascita del bambino o della bambina, e come dichiara lei stessa “they love it!”.

In realtà l’Unione Europea, già dal 1992, ha più volte chiesto agli stati membri una maggiore partecipazione dei padri nella cura dei figli e la Germania, con Ursula von der Leyen come ministro della famiglia, ha risposto di buon grado alle richieste europee, imponendo un congedo di paternità pari a non meno di due mesi dopo il parto, offrendo quindi quel forte input iniziale che consente di interpretare i papà e le mamme come entrambi dediti alla cura del focolaio famigliare, un compito che oggi come oggi viene spesso, se non sempre, affidato alle sole donne.


Perché l’ho definita una strana vicenda? Cosa c’è di male, per i figli e le figlie, nel trascorrere più tempo con il proprio papà?

Sicuramente si tratta di una situazione completamente diversa da quella italiana: difatti, l’ultima legge di bilancio ha “generosamente” sancito e aumentato a sette il numero dei giorni di congedo di paternità.

Un dato che di per sé fa riflettere.

Le normative italiane “si premurano” di concedere alla madre ben dodici mesi di astensione dal lavoro, totalmente retribuito, dopo la nascita del/lla figlio/a, ma invitano i papà italiani a tornare immediatamente a contribuire alla macchina inarrestabile della produzione economica del paese.

La realtà pratica parla chiaro: una volta tornata a casa dall’ospedale, una neomamma italiana è consapevole che suo marito potrà rimanere a casa con lei, non per due mesi o più, ma per sette miseri giorni. Questa vicenda passa, purtroppo, inosservata, difatti si pensa che sia giusto pensare prima alle mamme che ai mariti.

Ma la questione non è a chi si attribuisce più tempo o meno, semmai quanto tempo in più o in meno si attribuisce ad entrambi i genitori.


C’è del male, del pregiudizio e anche dello stereotipo quando si considera scontato e addirittura legittimo attribuire dodici mesi pieni alla donna e solo una settimana all’uomo poiché, venendo meno quell’input iniziale che abitui fin da subito i padri a stare a casa con i figli, per parecchio tempo, il genitore, chiamato a scegliere in futuro tra vita domestica e vita lavorativa, non è altro che la donna.

Addirittura, i recenti studi da parte dell’ISTAT hanno nuovamente confermato “una carenza strutturale nella disponibilità di servizi educativi per la prima infanzia rispetto al potenziale bacino di utenza (bambini di età inferiore a 3 anni), e una distribuzione profondamente disomogenea sul territorio nazionale.”, ossia asili nidi garantiti dallo Stato per un numero limitatissimo di bambini, con il risultato di una forte eterogeneità dell’offerta pubblica e privata sul territorio, anche a seconda della regione.

In sostanza, una volta conclusosi l’anno di maternità, non essendoci nidi pensati per tutte le famiglie italiane, una neomamma o si appoggia ai nonni oppure alla baby-sitter. Ma non è neanche detto che vi sia per tutti una famiglia alle spalle o le possibilità economiche per permettersi una persona affidabile. Inoltre, dal 2019, non è più previsto il voucher babysitter o asilo nido, cioè assegni telematici rilasciati dall’INPS del valore di 600 euro per rivolgersi a day-care privati.


Quindi, moltissime donne italiane arrivano a quel momento della loro vita in cui devono mettere sui piatti della bilancia il lavoro e la famiglia, la vita domestica e la vita lavorativa e ritenere come più “pesante”, o per meglio dire, importante, il lavoro a casa perché, alla fine, se non la pensassero così che madri sarebbero? Sarebbero comunque madri sì, ma considerate dalla società (italiana) come disumane, al di fuori del loro ruolo naturale.

Sulla stessa linea dell’Italia, purtroppo, si è posta per lungo tempo anche la Spagna, che, solo con un recente decreto del governo di Pedro Sanchez, ha ampliato il numero dei giorni di congedo di paternità obbligatori fino a tredici. Ma se pensiamo alla Francia, nonostante la sua pronta ed efficace assegnazione di numerosi aiuti alle famiglie, solo da luglio 2021, garantirà che la durata del congedo di paternità passi da 14 a 28 giorni e che i primi 7 giorni siano obbligatori.


«Quando il bambino viene al mondo, non c’è alcun motivo che sia solo la madre a prendersene cura», ha spiegato Macron presentando la nuova legge. Ed è proprio questo il motivo per cui, in altri paesi europei, si è pensato di attribuire non giorni, ma addirittura mesi interi ai neopapà di modo tale che spendano più tempo possibile con la famiglia. Per quanto possa sembrare intuitivo e fisiologico attribuire un periodo di tempo più dilatato alle mamme, anche per via di retaggi storici e biologici come la fase dell’allattamento, comunque resta il fatto che siamo appena entrati nel 2021 e non possiamo più rifarci a realtà preistoriche. Le mamme devono tornare al lavoro tanto quanto i papà e sapere che, nel caso in cui decidano di riprendere e realizzare la loro carriera lavorativa, comunque, non sono sole poiché vi è la sicura presenza dell’altro genitore.


Questo ragionamento, per quanto considerato marginale e fatto valere dalle donne ritenute, talvolta, delle “femministe isteriche”, ha dimostrato e dispiegato i suoi effetti positivi in diversi paesi e assicurerebbe un benessere sociale all’intera comunità globale, non esclusivamente quella femminile. Non è casuale e non è totalmente da imputare al Covid-19 il fatto che il tasso di natalità italiano stia letteralmente crollando: le donne vogliono realizzarsi a livello lavorativo e, o non pensano più alla famiglia, o continuano a procrastinare tale momento.

Vi sono coloro che obiettano che in Germania o in altri paesi nordici vi siano migliori condizioni economiche, sociali e politiche che consentano una normativa in materia di congedo di paternità molto più all’avanguardia, ed è vero che risulta fuorviante invidiare o idolatrare realtà statali non riconducibili alla propria nazione e alla propria storia. Però, di nuovo, non vi è la necessità di imitare pedissequamente le misure o la legislazione altrui, semmai percepire, cercare di comprendere e interiorizzare cambi di prospettiva, piccole e grandi rivoluzioni sociali e culturali, punti di vista nuovi, assunti da altri stati, e pensare poi a come adattarli alla realtà pratica del proprio territorio.

This kind of change can take time” come giustamente suggerisce Ursula von der Leyen allo Women’s Forum Global Meeting.


Però è qui che subentra il vero ruolo dell’Unione Europea, un’Europa più unita e non pensata per indurre gli stati membri a provare invidia l’uno per l’altro, in questo caso l’Italia o la Spagna o la Francia nei confronti della Germania, semmai per prendere spunto.

Alla base della creazione dell’UE c’è stata la volontà di imparare dalle esperienze vissute, congeniate e sperimentate da alcuni paesi membri e pensare a come meglio trapiantare tali modelli in altri stati membri, senza dimenticare le corrispettive radici e principi nutritivi, ma sfruttando idee nuove o rinnovate rispetto a quelle del passato.

Pertanto, si rivelerebbe un grande passo in avanti se, sul tavolo delle discussioni relative a questi famosi 200 miliardi provenienti da Bruxelles, si considerassero anche le effettive risorse destinate a questa giusta causa, essenziale per garantire un cambio di marcia e una velocità più spedita alla macchina inarrestabile della produzione economica dell’Italia, a cui possono ugualmente contribuire le donne e le mamme.


Sara Crimella

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