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Modelli inimitabili e distruttivi

Una ragazza di neanche vent’anni è stata trovata morta la mattina di mercoledì 1° febbraio all’Università IULM di Milano. Secondo quanto si apprende, il corpo della giovane sarebbe stato trovato impiccato in un bagno nei pressi di alcune aule dell’università. Il corpo senza vita della ragazza è stato rinvenuto da un custode all’apertura dell’ateneo milanese, poco prima delle 7:00. La vittima, vestita, è stata trovata con una sciarpa attorno al collo, l’altro capo appeso a una porta. Gli indizi disponibili farebbero propendere per un caso di suicidio. L'ennesimo caso di "suicidio accademico".


Il Senato Accademico dell’istituto ha ritenuto fosse opportuno sospendere le lezioni e osservare tre minuti di silenzio, durante la sessione d’esame, “in segno di lutto”. Così, poche ore dopo, si è finto di tornare alla “normalità”, in quell’ateneo alienato da una verità a due passi dall’aula dove 230 studenti sono stati chiamati per nome per sostenere un esame; una verità davanti alla quale tutti siamo improvvisamente divenuti sordi. Il fatto che la risposta dell’università sia stato il silenzio, salvo qualche frase di circostanza, sembra ironico, visto che è palesemente quello il problema. All’alba del 2023, è forse il momento di romperlo: gli atenei dovrebbero concretamente interessarsi della salute psicologica degli studenti, non è più sufficiente mettere in atto qualche formalismo per colmare lacune ormai divenute voragini. Dello stesso pensiero sembra fortunatamente essere anche la ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini, la quale ha annunciato di essere al lavoro per istituire presìdi per il benessere psicologico negli atenei: «Aumentano le fragilità legate al post-Covid e alla necessità di misurarsi con un mercato del lavoro che richiede performance sempre più alte, ma aumenta soprattutto il timore del giudizio negativo degli altri». D’altra parte, è lo stesso modello universitario ad essere sempre più performativo: si devono assolutamente raggiungere certi risultati, e bisogna fare in fretta, non c’è mai tempo da perdere, nonostante a vent’anni si abbia ancora tutta una vita davanti. L’obiettivo della ministra, comunque, sembra essere quello di aiutare a capire che il merito è un percorso e, soprattutto, una conquista con sé stessi, non il risultato di una sola prestazione: non siamo le risposte che diamo ad un esame, nel giro di un’ora, in condizioni di stress estremo. Non siamo quegli stoccafissi davanti al computer che cercano disperatamente di dimostrare di aver capito le nozioni esposte a lezione, siamo tutti i piccoli gesti che facciamo tutti i giorni, tutto l’impegno e la forza di volontà che ci mettiamo anche solo per arrivare in quell’aula, per poi uscire e continuare con la nostra vita, in cui le sconfitte sono tanto quanto, se non più fondamentali delle vittorie.


Non è accettabile che a 19 anni ci si senta un fallimento per qualche esame non dato o per una sessione andata male – sebbene ciò possa essere “solamente” l’ennesima goccia che fa traboccare il famoso vaso – ma è quello che purtroppo accade a tutti, almeno una volta. Questo fatidico vaso potrà pure essersi riempito di problemi personali, ma di sicuro non aiuta a superarli il fatto di far parte di una generazione schiacciata da ideali di successo generalizzati, che non tengono conto di peculiarità e ostacoli del percorso di ognuno, creando dunque, in chi non sta al passo con questa perfezione irraggiungibile, un forte senso di inadeguatezza, il pensiero di "aver fallito". È proprio questo che la ragazza ha lasciato scritto: “Nella vita ho fallito tutto”. No, ovvio che a 19 anni non hai fallito proprio niente, ma è molto facile pensarlo, incessantemente posti di fronte ad un modello estremizzato di eccellenza che può diventare un modello che uccide. Il vero fallimento è di chi ci colpevolizza se non stiamo nei tempi dettati, anche se magari neanche ne abbiamo le possibilità economiche o materiali, di chi non si ferma a pensare che, magari, dietro la storia di uno studente che non ha passato un esame o non si è laureato in tempo, c'è la storia un ragazzo che nel frattempo svolge uno o due lavori per mantenersi gli studi e la vita in un'altra città, per provare ad emanciparsi in un Paese dove l’età media di chi va a vivere da solo si aggira intorno ai 30 anni, a causa di una condizione di precariato e stipendi risibili molto peggiore di quella vissuta dai nostri genitori alla nostra stessa età.


Come ha scritto il rettore in una lettera destinata a tutta la comunità dell’ateneo: “C’è un mistero, in un gesto così, c’è una ferita, c’è un dolore così grande, che chiedono solo di essere ascoltati, con rispetto”. Certamente, non c’è mai solo una causa a motivare gesti così estremi. Sarebbe limitante incolpare il sistema universitario, ma certamente è l’ennesima conferma che esso non è in grado di rapportarsi con le problematiche che esso stesso causa. Secondo dati dell’ISTAT riferiti al 2018, il 10% degli 8 milioni e 200mila giovani tra i 12 e i 25 anni che vivono in Italia dichiara di essere insoddisfatto dalla propria vita, compresa la parte che riguarda gli studi. In numeri, si tratta di 800mila persone. L’università dovrebbe essere un luogo di aggregazione, di crescita personale, di condivisione, non soltanto di formazione e preparazione al lavoro, altrimenti andrebbe a contribuire solamente alla crescente alienazione in un mondo ormai troppo veloce e con troppe pretese per l’essere umano. Spesso, per giustificare la disumanità della scuola prima e dell’università poi, si usa impropriamente il termine “palestra di vita”, quando invece si tratta del primo luogo in cui un giovane si sente “frustrato”, poiché immerso in una retorica di competizione ad eccellenza e sottoposto ad un giudizio costante ed eccessivamente severo. Di fatto, la scuola oggi non è definibile come una palestra, in cui, in teoria, dovresti sentirti libero di poter sbagliare per poi, appunto, imparare da questi sbagli e migliorare, bensì consiste ormai in un assaggio delle frustrazioni di domani. A supporto di tale tesi, basti notare il fatto che l’Italia ha una delle più basse percentuali di universitari in Europa, probabilmente anche perché si finiscono le scuole superiori stanchi di farsi “maltrattare” gratuitamente. A chi sostiene che ci sia sempre stata una gara di eccellenza dentro il percorso formativo o il fatto che il mondo del lavoro fuori garantisca la sopravvivenza solo per chi eccelle, bisognerebbe chiedere se loro stessi si trovano bene in un mondo del genere, per poi far loro notare che non vi sono regole incise sulla pietra che obbligano a perpetrare all’infinito questo modello di vita, professionale e personale, ancora arroccato a logiche anni ’50. Parlando dell’istruzione, basterebbe intervenire sui regolamenti didattici, sugli strumenti di tutoraggio e sul supporto didattico, o, quanto meno, questo sarebbe un inizio.


Prescindendo dalle ragioni che hanno spinto la ragazza al suicidio, il fatto che il gesto sia avvenuto tra le mura dell’università investe l’ateneo stesso di una responsabilità imprescindibile. Questo dovrebbe assumere un ruolo centrale, propulsivo, di riflessione.

Non si sta tentando di “sociologizzare” il fatto, mancando, nel frattempo, di rispetto alla vittima. Si sta semplicemente cercando di portare l’attenzione su un fenomeno di cui ancora troppo spesso si ha paura o ci si vergogna di parlare, quasi fosse un elemento di disturbo che è bene nascondere sotto il tappeto, mentre continua a logorare dall’interno. Se ciò non dovesse bastare, si parla di statistica: secondo i dati ISTAT, sono circa 4mila i suicidi in Italia ogni anno: il 5% riguarda giovani sotto i 24 anni, il 13% sotto i 34, di cui molti sono studenti, soprattutto universitari. Negli ultimi tre anni almeno dieci universitari si sono suicidati, quattro solo tra il 2021 e il 2022. E questi sono soltanto i casi noti: tragedie che si erano consumate spesso in prossimità di feste di laurea annunciate ai genitori pur non essendo previste dagli atenei, poiché i ragazzi erano in ritardo con gli esami, ma non erano riusciti a confessarlo ai parenti. Sono numeri sconcertanti, che non sembrano però smuovere più di tanto chi dovrebbe farsi carico di trovare soluzioni a questi disagi, frutto di una società alla perenne ricerca del successo e che arriva a sminuire e bullizzare chi non riesce a rispettare determinati standard e aspettative. In un tale contesto oppressivo, chi cerca di dare il meglio di sé dovrebbe ricordarsi che “successo” è banalmente il participio passato del verbo “succedere”: non dobbiamo puntare ad una fantomatica gloria prospettata da un mondo malato, perché questo ci farebbe percorrere in eterno una strada lastricata di frustrazione. Con tutta la calma del mondo, ognuno può riuscire a far succedere qualcosa di bello per sé, il proprio piccolo ma grandissimo successo.


È imperdonabile parlare di tali avvenimenti per una questione di clickbait, come purtroppo è accaduto, soprattutto da parte di chi poi, incoerentemente, premia e offre spazio solo a coloro che eccellono, senza offrire vere opportunità al resto dei giovani, creando un clima di incertezze e paure. Ci bombardano con storie di “supereroi”, enunciate a tambur battente come se si volesse instillare nell’inconscio dei ragazzi che basta il semplice volerlo per farcela. Spoiler: non è così. In questo caso, infatti, sono stati soprattutto gli studenti a farsi sentire, motivati da una crescente paura che l’interesse verso il malessere giovanile e la salute mentale scemi rapidamente fino alla prossima tragedia. È passato solo qualche mese dalla scomparsa di Riccardo Faggin, studente universitario di 26 anni che si è tolto la vita simulando un incidente stradale. Anche in quel caso, tutta l’Italia ha parlato della drammatica vicenda per giorni, per poi farla finire nel dimenticatoio. Il sipario è calato velocemente sia sulla storia di Riccardo che soprattutto sull’analisi di un fenomeno in preoccupante ascesa.

Questa volta, ascoltateci.



Carlotta Caromani



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