Ve li ricordate i giorni in cui arrivavamo in ritardo a lezione, a lavoro o a un appuntamento? I giorni in cui dovevamo scegliere se sacrificare la colazione o la doccia, se prendere la bici o andare a piedi? E li ricordate quelli in cui alla sera spegnevamo fiaccamente l’interruttore della luce, consumati dalla consapevolezza che nelle ventiquattro ore appena trascorse avremmo potuto fare di più?
I minuti scorrevano troppo in fretta mentre cercavamo disperatamente di farvi rientrare le nostre mansioni: ci improvvisavamo corridori, smanianti di superare una linea d’arrivo auto-imposta.
Il tempo non bastava, mai, eppure scorreva: il continuo divenire teorizzato da Eraclito sembrava possedere la nostra società.
Stando alla fisica moderna il tempo non trascorre, semplicemente è. La sua percezione altro non è che la presa di coscienza di un cambiamento: conveniamo che un intervallo di tempo è tale grazie alla presenza di un ‘prima’ e un ‘dopo’.
Illuminante, a riguardo, è l’esperimento di deprivazione sensoriale condotto dallo psicoanalista statunitense John Lily. I soggetti vengono inseriti in una vasca di vetroresina che accoglie al suo interno una soluzione ipersatura di solfato di magnesio. Una volta preso posto all'interno, il corpo umano inizia a galleggiare sulla superficie del liquido nel buio e silenzio assoluto, così da annullare qualunque stimolo esogeno.
Nel corso della sperimentazione minuti e ore divengono privi di significato: si ravvisa la tendenza all’inconsapevolezza del presente, l’incapacità di distinguere tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, con la conseguente esigenza di rifugiarsi in un passato o in un futuro lontano.
Oggi abbiamo l’impressione di trovarci in quella vasca. Nel momento in cui ci è stato comunicato l’obbligo di quarantena abbiamo smesso di vivere in intervalli di tempo, di arrivare tardi agli appuntamenti, di sacrificare la colazione, di correre trafelati verso la linea d’arrivo.
Il circuito ad alta velocità della vita si è interrotto in poche ore: improvvisamente eravamo fermi. E se inizialmente quell'immobilità sembrava una ‘cosa da poco’, una situazione che sarebbe durata una settimana al massimo, attualmente rappresenta la nostra quotidianità.
Il virus SARS-Cov-2, milite invisibile eppure estremamente tangibile, si è diffuso esponenzialmente nel giro di pochi mesi lasciandosi alle spalle oltre quindicimila vittime. Dal 21 febbraio, giorno del primo decreto-legge che prevedeva la quarantena per gli abitanti dei comuni in provincia di Lodi e Padova, fino allo scorso mercoledì, in cui le misure di sicurezza sono state estese sino al 13 aprile, l’intera nazione ha gradualmente conosciuto l’isolamento.
Ci siamo chiusi dietro le porte di casa, una dopo l’altra; ci siamo affacciati su strade vuote nella speranza di incrociare frettolosamente lo sguardo di un passante; abbiamo spento la luce, ponendo così fine alla giornata trascorsa, nel tardo pomeriggio, in piena notte o non lo abbiamo mai fatto: non faceva più alcuna differenza.
Difatti quanto realmente è mutato per noi ‘superstiti’ è stato il tempo. Da una vita continuamente scandita da eventi e scadenze siamo giunti all’estremo opposto: distinguere tra un ‘prima’ e un ‘dopo’ quando le giornate, in fondo, sono tutte uguali a loro stesse risulta difficoltoso.
E sebbene la progressiva digitalizzazione ci consenta di continuare, almeno parzialmente, con le nostre attività quali il lavoro o lo studio, le ore paiono dilatarsi inevitabilmente lungo il corso delle nostre, monotematiche, giornate.
Non è certo l’assenza di attività da svolgere a tormentarci, quanto l’impossibilità di riordinarle in un paradigma temporale. Non possediamo più gli stessi mezzi per scandire il tempo che scorre: le cifre sull’orologio perdono di significato e si confondono tra loro se si susseguono sempre all’interno delle stesse quattro mura.
E dunque arriviamo a chiederci se quello che abbiamo a disposizione adesso sia del ‘nuovo tempo’ o se, piuttosto, il tempo, in quanto mera intuizione che abbiamo di esso, si sia totalmente dissolto.
Analogamente ai soggetti presi in esame da Lily ci rifugiamo in un passato lontano, riesumando passioni o abitudini a cui poche settimane fa non potevamo dedicarci, subissati dalle nostre vecchie routine, o in un futuro altrettanto indeterminato, facendo pronostici sulla fine della quarantena e sulle nostre vite ex post.
Ebbene combattere l’eterna domenica in cui versiamo, tentando di cadenzare le giornate e ‘scandire l’inscandibile’ assomiglia quindi a un’illusione, una favola che ci raccontiamo quotidianamente per non abbandonare il contatto, oltre che con il mondo, con noi stessi.
Nondimeno, per quanto ingannevole, plasmare un nostro, fittizio, scorrere del tempo è quanto ci resta oggi, nell’attesa che la vasca in cui siamo confinati venga riaperta.
Davide Cocco
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