Omicidio, stupro, revenge porn. “Per l’ipotesi di una separazione”, “Lui era un vulcano di idee”, “Una goliardia”. E, rispettivamente, “Evidentemente lei aveva fatto qualcosa, bisogna indagare”, “La ragazza era disposta a vendersi”, “Ma lei che manda quel video sa come funzionano certe cose”. Cosa lega inesorabilmente tre dei più recenti fatti di cronaca e relative prese di posizione che non rappresentano, ahinoi, nulla di nuovo sotto il sole?
Lo sdegno per una narrazione mediatica che, sempre più vocata alla spettacolarizzazione e al titolo d’impatto, è l’humus fertile per un tentativo (non velato) di colpevolizzazione della vittima e una deresponsabilizzazione vittimismo del colpevole. La vicinanza a donne, ancora una volta sottoposte alla lama tagliente di un becero moralismo di sconosciuti centrato sul “Non possiamo dire che non se la sia cercata”. Il grande impatto sul dibattito pubblico per ribadire che la libertà di voler porre fine ad una relazione, di prender parte ad una festa, di vivere la propria sessualità, non possono essere in alcun modo considerate causa di una violazione della propria dignità, privacy e libertà.
Ma c’è un altro punto, ancora più profondo e fine che merita attenzione. Come per ogni avvenimento che conquista uno spazio nel dibattito attuale, anche qui aleggia l’ombra di una fuorviante dicotomia tra due fazioni: chi ribadisce concetti quali il rispetto dell’altro, della donna, della libertà di autodeterminazione senza se e senza ma, e chi considera tali concetti come anacronistici o “sessisti al contrario”. Il problema di questa manichea separazione risiede soprattutto nelle conseguenze a cui questa conduce: si rischia un confronto destruensma non construens nella misura in cui piuttosto che concentrarsi sul problema, condannarlo e risolverlo, lo si acuisce ancora di più. Anche qui, nulla di sconosciuto: lo spostamento del focus di una discussione è ormai alla base della narrazione e dei commenti relativi a quest’ultima: Il problema non è più la diffusione di materiale intimo da parte di terzi senza autorizzazione, ma diviene il fatto che una persona abbia voluto filmare una parte della propria intimità. E ancora, il problema non è più la lesione della privacy personale ma diventa ciò che nella sfera della propria intimità si decide di fare. La questione non è più quanto sia orrendo una tale accanimento fisico contro una ragazza, ma quanto sia stata poco prudente la vittima a prendere parte ad una festa. Come se, ancora una volta, ci fosse stato un tacito consenso ad un abuso e ad una violazione. Ecco allora il punto centrale che rischia, nel magma di opinioni, di essere dimenticato: l’abuso, la violenza, l’umiliazione.
Invece di parlare di questo, di indagare sul perché ci si senta autorizzati a perpetrarli, di comprendere come scardinare un processo mentale e sociale di sopraffazione ormai ben consolidato, ci troviamo di fronte ad uno scenario ben diverso: una maestra licenziata perché colpevole di aver vissuto la propria intimità, nella propria casa e nell’intimità della propria relazione (?) e altri abusi e violenze rimasti nell’ombra perché il tono accusatorio altrui è pesante e insostenibile.
“Quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito” sembra descrivere chi, pur di non affrontare un problema, cerca poi di ostentare la presenza di altri problemi, svilendo in questo modo il primo e non dicendo nulla sui secondi. Il caso di chi invoca la presenza di un “sessismo al contrario” in queste circostanze e dibattiti ne è l’esempio. Non solo non viene apportato alcun valore aggiunto alla discussione, ma si rischia anche di depotenziare il fulcro della questione, quasi negando l’esistenza di un problema chiamato “Violenza e affermazione di un presunto potere”. Ed è proprio questo alla base di chi compie il gesto prima e di chi si scandalizza per la sua condanna dopo.
L’amore, il piacere sessuale, la goliardia infatti sono altre cose: nulla di tutto questo spinge a commettere REATI, nulla spiega la cattiveria e la ferocia di un atto se non l’idea di un presunto potere sulla vita, sul corpo e sulla reputazione altrui. Dire che è amore uccidere perché l’altro vuole porre fine ad una relazione, significa svilire l’amore stesso, in un’ottica relativistica per cui in estremis se tutto è amore, allora nulla è davvero amore. Definire come goliardia l’invio di video privati altrui implica che è una goliardia fare del male ad altre persone, dire che la natura dell’uomo è quella di un predatore pronto ad azzannare significa negare (e negare a se stessi) la bellezza, l’ingegno e la dignità dell’uomo stesso.
Ecco allora gli ulteriori danni di un finto moralismo sociale che ancora crede che l’uomo sia una bestia in preda all’istinto e la donna un’umile creatura che deve integerrima difendersi da quest’istinto. “Boys will always be boys” non ha fondamento logico e commenti ancora imperniati di una condanna morale perbenista fanno comprendere che la strada da fare è ancora tanta.
Manca ancora uno spirito, una coscienza sociale e umana per la ratio di reati quali il cosiddetto “Revenge porn”, introdotto solo nel 2016, un’educazione che parta dalle scuole, dalle famiglie, dalle istituzioni, un’educazione che spieghi perché condannare modelli sociali non basati sul rispetto e sull’uguaglianza, un’educazione che non confonda discorsi quali prudenza e attenzione e abuso e reato. E purtroppo, se questo tipo di riflessioni non vengono sviscerate e rese pubbliche, non possiamo sperare che un cambiamento di rotta avvenga per il mero scorrere del tempo, non possiamo sperare nelle nuove generazioni se non rendiamo queste protagoniste di un cambiamento.
Una donna non deve preservare una relazione per evitare di incorrere nella morte o in una vendetta, una donna non deve non determinare le proprie scelte per paura della reazione o dell’azione dell’altro. Un uomo non deve arrogarsi il diritto di avere potere sulle scelte, sul corpo e sulla fama di una donna, sia essa compagna, conoscente o sconosciuta.
Sembra scontato ribadirlo ancora? No purtroppo. E serve ribadirlo per un target non solo maschile ma anche femminile in moltissimi casi. Il perbenismo ipocrita di chi ritiene “se non avesse fatto non sarebbe incappata in situazioni simili” è solo un modo per ostentare una presunta superiorità valoriale. Questa è poi ancora basata su una stigmatizzazione del piacere femminile, in ogni ambito, sessuale specialmente, considerato male in quanto generatore di altri mali e quindi sostanziale colpa. Peccato solo che il capo di imputazione sia un altro e che il marcio non sia in un capo di abbigliamento, in un corpo sinuoso, in un comportamento intraprendente o in un video.
Si pensi al caso dei gruppi Telegram e delle foto estrapolate dai social e modificate: si deve agire impedendo ad una donna di pubblicare una qualsiasi foto perché questa potrebbe comunque ritorcersele contro o si deve agire focalizzandosi sull’anormalità del meccanismo di condivisione? Non ci sarà cambiamento se non capiremo tutti e tutte cosa effettivamente condannare, e non solo in tribunale.
Ecco quindi che la libertà di ognuno termina dove inizia la libertà dell’altro e questo vale in ogni ambito, ricordiamolo agli insigni giudici su Facebook, a parenti, amici e amiche quando diranno “Ma si, alla fine certe conseguenze sono normali”.
No, non sono normali, ecco il punto.
Maria De Pascalis
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