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Riders: una storia tutta in salita

La nostra quotidianità è stata stravolta. Il puzzle del nostro vivere, dove gli impegni, gli orari, le nostre attività, gli incontri si incastravano anche a fatica, è improvvisamente saltato. Il virus ha reimpostato le relazioni tra le tessere del puzzle. Tuttavia, qualcosa è rimasto immutato: il COVID-19 non è riuscito a fermare le ruote delle biciclette di chi da mesi incessantemente continua a consegnare il cibo nelle nostre case.

Una figura lavorativa (i c.d. “riders”) ormai diffusa soprattutto nelle grandi città e a noi divenuta familiare, che rappresenta un fenomeno sociale da cui sorgono diversi interrogativi: chi sono, come funziona effettivamente questa attività e che rischi corrono.

Si tratta di studenti universitari, giovani in cerca di prima occupazione, disoccupati di lungo termine e persone adulte “uscite” dai percorsi lavorativi, che trovano in questa occupazione una possibilità di avere un seppur minimo reddito.

Per svolgere tale attività non sono richieste conoscenze specifiche, attività formative preliminari, né attrezzature particolari; basta una bicicletta o addirittura solo un paio di gambe. Tutto ruota attorno ad unosmartphone, ad un’app e ad una piattaforma: una professione emergente nel quadro della gig economy. La piattaforma veste i panni del nuovo datore di lavoro che impartisce le direttive su cosa fare ed entro quanto tempo, come avviene nei tradizionali rapporti di lavoro. Tuttavia la natura digitale tende a spersonalizzare il rapporto con i lavoratori. Per quest’ultimi non rimane, quindi, nient’altro che un device con cui interfacciarsi. L’app mostra gli ordini disponibili in zona; il rider una volta presa in carico la consegna deve portarla a termine, a qualsiasi ora del giorno e della notte e indipendentemente dalle condizioni atmosferiche. La gestione della consegna è a carico del lavoratore: secondo contratto la bici è di proprietà del rider e quindi a suo carico rimane il rischio della sicurezza del mezzo di trasporto. Un aspetto centrale della situazione è che nessuno garantisce al rider se quel giorno guadagnerà e se questo accadrà, quanto guadagnerà. Dipende tutto dalle consegne che appaiono in piattaforma e dalla quantità di cui si riesce a prenderne carico. La modalità di retribuzione evoca l’immagine del “cottimo”, ed ecco spiegato perché i rider sfrecciano per poche decine di euro al giorno tra gli spazi lasciati liberi da noi utenti della strada. Punto delicato della vicenda lavorativa di questa categoria è la tutela contro i “rischi del mestiere”. Fino a febbraio del 2019, i riders non venivano assistiti da nessun tipo di tutela né previdenziale né assicurativa, solo qualche modesto risarcimento che alcune piattaforme prevedevano con delle assicurazioni di natura privata in caso di danni all’integrità fisica. Da febbraio lo scenario è mutato e in Italia lo Stato ha previsto almeno un’adeguata copertura assicurativa a carico della piattaforma contro gli infortuni sul lavoro alla stregua di molti altri lavoratori dipendenti.

In futuro, visto che siamo di fronte ad un mercato in grande espansione sarà necessario compiere nuovi passi, magari verso la definizione di un contratto collettivo di categoria che assicuri minimi contrattuali da rispettare e modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, allo scopo di garantire quei minimi inderogabili a garanzia del lavoro e della dignità della persona.


Armando Faraci

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