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Scomparsi...

Aggiornamento: 5 apr 2021

‘’Il Covid-19 sarà stato definitivamente debellato quando i telegiornali torneranno a parlare dei migranti’’

Una frase tanto banale quanto vera.

“Eh no il discorso migranti” un’altra volta no: ne abbiamo sentito parlare troppo, tutti, ma proprio tutti si sono cimentati nell’esporre più o meno esplicitamente la loro opinione a riguardo.” “Il tema migranti è ormai troppo gettonato!”

“Non ne hanno già parlato abbastanza?’’

Il discorso “migranti” è tutto tranne che queste considerazioni.

I telegiornali nazionali si sono rivelati, negli ultimi anni, dei e veri e propri bollettini ufficiali. Sono infatti passati dall’elencare minuziosamente il numero di coloro che attraversano il Mediterraneo al riportare, altrettanto dettagliatamente, il numero dei casi positivi, con particolare dedizione nel citare la cifra precisa piuttosto che nel raccontare il grave disagio a cui queste persone (perché di persone si tratta, non di semplici numeri) sono andate incontro.

Eppure, sebbene nell’attuale clima sociopolitico l’unica parola che ci porta a rivolgere lo sguardo allo schermo o alla pagina di giornale sia ‘Covid-19’, i migranti ci sono ancora e si spostano ancora.

Nei libri di scuola, quando studiamo e apprendiamo della tratta degli schiavi, inorridiamo di fronte a quanto compiuto dai nostri antenati, bianchi ed europei, per diversi secoli, soprattutto negli anni del 1700. Inorridiamo e biasimiamo quella società considerata, ora come ora, arretrata, non riconducibile ad una realtà evoluta, moderna, di pari diritti e opportunità come il 2020.

Guardiamo film, leggiamo libri che ci raccontano di tratte lunghissime, di navi che salpavano dalle coste africane stracolme di ragazzi, ragazze, donne e uomini strappati alle loro terre, alla loro famiglia e alle loro origini per servire i bianchi. Consideriamo disturbante venire a conoscenza dei trattamenti disumani inflitti a queste persone. Definiamo “scene forti” le immagini dei documentari che ci mostrano come, durante le tratte lungo l’Oceano Atlantico, tutti quegli schiavi considerati deboli e non commerciabili venissero incatenati a dei pesi, gettati poi in mare, per farli affogare trascinandoli fino al fondo degli abissi e diminuire così il “carico” delle imbarcazioni.

Non pensiamo minimamente che situazioni del genere ci riguardino. Perché intanto, almeno nelle odierne democrazie mature, non ci sono più gli schiavi, no? Si spera di no!

Eppure essere schiavi non significa necessariamente essere vincolati ad un padrone, ad un soggetto che dispone della propria persona e della propria libertà. Si può essere schiavi di una propria abitudine, di una determinata situazione sulla quale non si è in grado di imporre la propria volontà e, infine, si può essere schiavi di una società. Una società che inserisce gli individui in un determinato gruppo dal quale non è semplice ed immediato uscire. Questa vera e propria categorizzazione sociale ingenera stereotipi, difficili da scardinare, poiché “ognuno è tenuto a stare al proprio posto”.

Pertanto, i cosiddetti “migranti”, catalogati e stereotipati, sono schiavi di una società, non più settecentesca e antiquata, anzi evoluta e moderna, quale l’attuale Unione Europea.

Difatti, qual è la differenza tra la nave del XVIII secolo e il barcone del nuovo millennio? Cosa cambia tra l’acconsentire che schiavi neri, deboli e malati vengano gettati in mare e lasciare che uomini, donne e bambini affoghino da soli? Che differenza c’è tra il cimitero dell’Oceano Atlantico e quello del Mar Mediterraneo? In cosa divergono l’indifferenza e l’ignoranza di allora e il non interventismo e l’inconsapevolezza di oggi?

La risposta è una sola: niente.

Alcuni potrebbero immediatamente contestare che il singolo cittadino, di fronte a queste dinamiche, così apparentemente lontane dalla sua sfera di azione, non possa intervenire attivamente come vorrebbe o potrebbe. ‘’È compito di qualcun altro. Spetta alle autorità’’. Sì, vero, a livello istituzionale sì. Però il cambiamento nasce sempre da una consapevolezza sociale collettiva e condivisa, non incide quasi mai l’azione del singolo, qualunque sia il suo potere o la sua autorità. Difatti, la stessa tratta degli schiavi ha finalmente avuto fine quando, collettivamente, si è diffusa una nuova coscienza e conoscenza del fenomeno. Se noi, generazione avanzata e moderna, ci arroghiamo il diritto di giudicare i conquistadores nei nostri manuali, cosa impedisce ai manuali dei secoli a venire di giudicare il nostro attuale comportamento?

Altri potrebbero anche affermare che, se parliamo di Unione Europea, molti Paesi, tra i quali l’Italia, diretti spettatori di quanto succede su questa ondivaga zona di frontiera, si sono sentiti abbandonati dalle istituzioni nella gestione di un fenomeno estremamente più ampio di quello che appare – tutt’altro che un semplice e disavventurato trasferimento da una sponda ad un’altra. Anche questa ipotesi è da considerarsi parzialmente fallace poiché, per quanto sia tangibile la mala gestione del fenomeno e la mancanza di un progetto comune a livello europeo, resta il fatto che, ancora, l’iniziativa insorga e si faccia sentire in lungo e in largo quando vi è un pensiero, anche solo una gemma di idea, condiviso e vissuto da tutti, o almeno dalla maggioranza.

Non si può certo pretendere che tutti sentano una vicinanza verso queste persone!

È la frase che rimbomba nella mente di molti. Torniamo allora a paragonare i fatti per sciogliere questo ulteriore nodo. La tratta degli schiavi non si è conclusa in tutto il globo 1° gennaio del 1800. Dapprima si è verificato un lento mutamento della percezione delle cose, e, solo dopo, il commercio di esseri umani “fu ufficialmente abolito dapprima dalla Danimarca (1792) e dalla Francia (1815), poi da Inghilterra (1807), Stati Uniti (1808), Olanda (1814), Svezia (1815) e Portogallo (1815-1830)”, come ci riportano i manuali di storia del 2020.

Certamente non tutti hanno sentito vicino il fenomeno della tratta degli schiavi, cionondimeno è anche vero che “ignorance and fear are matters of the mindand the mind is adaptable” come ci ricorda Daniel Kish, un perceptual navigation specialist e ospite di TedTalks nel 2015.

In altre parole, i nostri antenati hanno imparato ad adattarsi e ad interiorizzare una concezione nuova, diversa e soprattutto giusta della persona e della sua dignità rispetto alle considerazioni del tempo.

Se diamo fede alla suddetta tesi, implicitamente ammettiamo che in un futuro non troppo lontano (ma neanche abbastanza vicino) verrà gradualmente condivisa una concezione in forza della quale sarà giusto un attivismo e un interventismo nei flussi migratori.

Tuttavia, perché aspettare questo “futuro”?


Il fiammifero che dovrebbe accendersi e far divampare un fuoco nel nostro animo e nella nostra società sono i video, proiettati al telegiornale, di mamme che perdono i loro bimbi in mare, di bambini che vomitano l’acqua salmastra ingerita, di uomini che, non avendo mai imparato a nuotare, vengono risucchiati dalle onde, di ragazzi e ragazze tratti in salvo la notte, non perché illuminati dalla luce di una nave, ma perché udito il loro ultimo grido di soccorso.

L’interruttore che dovrebbe illuminare le nostre menti, stanze che versano ancora nel buio del presente, è rappresentato dai tanti e continui appelli di studiosi, giornalisti, intellettuali, ma anche di gente comune che ci sprona a non agire come nel XVIII secolo, a non finire giudicati nei manuali di storia degli anni a venire.

Siamo qui ora e siamo qui adesso: “If not me, who? If not now, when?”, come ci ricorda l’attrice inglese Emma Watson.

Pertanto, queste riflessioni non hanno alcun ancoraggio in nessuna ideologia politica né presente né passata, sono un richiamo al raziocinio di ciascuno di noi, nella speranza che cominceremo finalmente a guardarci intorno in maniera diversa. Difatti, i cosiddetti e stereotipati “migranti” non sono cifre riportate dettagliatamente dai telegiornali nazionali, sono tutt’altro. Sono innanzitutto storie umane di cui verremo considerati i responsabili dalle società future.

E, a questo proposito, risuonano più vere che mai le parole dello scrittore e giornalista Roberto Saviano pronunciate al programma “diMartedì” sul canale LA7 il 13 giugno 2018:

Sto parlando a chi un giorno, guardando questi mesi, questi anni, si chiederà: ma come è stato possibile che l’Italia ha permesso tutto questo, come è stato possibile rendere il Mediterraneo un cimitero? Ecco, a quelle persone io dico: NON tutti hanno partecipato a questo scempio. C’è stato chi ha resistito e resisterà”.

Sara Crimella

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