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Immagine del redattoreFederico Rosa

Steve Jobs. Ma meglio

Prendete una mela. Verde, rossa, gialla, non importa. Non esiste razzismo nel mondo delle mele. O quantomeno non esistono gli avvocati. Prendete una mela, dicevamo. Guardatela. Fissatela come se fosse l’ultima cosa rimasta al mondo o la prima della vostra vita. Datele l’importanza che le diede Eva. Ecco, ora chiedetevi “come si sbuccia una mela nel XXI secolo? Come si mangia una mela, nel XXI secolo?”. Domanda idiota, penserete. E probabilmente lo è. Però, in fondo, le risposte potrebbero essere molteplici. Si può tagliarla, si può morderla senza nemmeno sbucciarla, si può addentarla, ma dopo averla sbucciata, si può tagliarla, cuocerla e mangiarla cotta. Insomma, la risposta è che non c’è una risposta. Dipende dal momento, se sia estate o inverno, se si stia bene o se si sia malati. È come per le canzoni. Devono comprenderti, adattarsi al tuo sentire. C’è il momento per Gigi Dag e quello per Simon & Garfunkel. Ecco, le parole che seguiranno in questo scritto, non vogliono essere una risposta assoluta, non vogliono spiegare come si mangino le mele nel XXI secolo, ma, semplicemente, cercare di portare un po’ di mele cotte, ben zuccherate, con un po’ di cannella ad un malato temporaneo, come siamo tutti noi in questo momento.


È il 12 giugno 2005 e a Stanford sono in corso le cerimonie di laurea. Erano ancora i bei tempi in cui si potevano fare dal vivo. A parlare ai laureandi c’è Steve Jobs. Il suo discorso passerà alla storia. Racconterà ai ragazzi tre esperienze personali, di gioie e dolori, sliding doors che l’hanno portato ad essere l’uomo che è. Racconterà dell’importanza di amare ciò che si fa, di saper sfruttare ogni momento, di mettersi sempre in gioco. La conclusione la conosciamo tutti ed è un invito ai laureandi presenti: “Stay hungry. Stay foolish”. Parole di speranza ed amore per la vita, che sono rimaste nella memoria di tutti noi e che, probabilmente, hanno ispirato molti. Erano parole perfette perché perfette per quel momento. Una fresca mela appena colta, in una calda giornata estiva. Parole per il presente. Un discorso su sé stessi, per sé stessi. Ma 20 giorni prima, di discorso, ce n’era stato un altro. Passato decisamente più in sordina. Un discorso forse poco adatto per quel presente, un discorso più per il futuro. Prendete Love of my life dei Queen. Se parte durante il diciottesimo, anche no. Però poi, quando qualche anno dopo, la tipa ti lascia senza un vero perché, allora ti convinci che sia la canzone perfetta per il mondo.


21 maggio 2005, Kenyon College. Siamo sempre ad una cerimonia di laurea. Sul palco, questa volta, c’è David Foster Wallace. Il suo discorso inizia così: “Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice ‘Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?’ I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede ‘Ma cosa diavolo è l’acqua?’”. Boom! No, vero? Niente boom. Non è un grande inizio. Sicuramente non ha l’impatto di “stay hungry, stay foolish”. È una storiella che si aggira tra la mezza risatina e il metaforico. Una roba banale, insomma. E proprio di banalità Foster Wallace vuol parlare. La storiella dei pesci è una banale storiella, con una banale morale, riguardo la banalità. Quello che David Foster Wallace vuol comunicare ad una manica di studenti, è l’importanza delle cose scontate, di come dei banali luoghi comuni siano a volte questione di vita o di morte. La vita non è fatta solo di sogni e speranze. La vita è fatta di giorno dopo giorno, di quotidiane trincee dell’esistenza. E la chiave dell’esistenza, per Foster Wallace, sta nella consapevolezza, nel chiedersi dell’acqua. E, per farlo, bisogna ribaltare la prospettiva del discorso di Steve Jobs. Bisogna switchare dal guardare noi, le nostre speranze, le nostre esigenze, al guardare ciò che ci circonda, gli altri, la realtà. Per farlo, è necessario mettere in discussione noi, le nostre certezze, uscire da quella che Wallace chiama la nostra modalità predefinita di metterci al centro dell’Universo. Pensateci: non abbiamo mai vissuto un’esperienza che non ci vedesse al suo centro esatto. Il mondo è solo qualcosa che ci scorre davanti, dietro, a destra o sinistra. La nostra modalità predefinita naturale dà per scontato che ogni situazione della vita contempli esclusivamente noi stessi. La nostra fame, la nostra stanchezza, il nostro desiderio di riposo, il pensiero che ogni macchina sulla strada, ogni persona alla cassa del supermercato ci intralci. Fondamentale, perciò, è non solo imparare a pensare, ma riuscire ad avere un certo controllo su come e cosa pensare. Se siamo automaticamente certi di sapere cosa sia la realtà, cosa sia importante, allora finiremo per trascurare tutte quelle eventualità che non siano inutili o fastidiose. Il fatto è che le parti noiose, frustranti e caotiche della vita ci lasciano tempo per pensare e, nel farlo, permettiamo che a dare l’ordine d’importanza alle cose siano i nostri bisogni immediati. Il risultato sarà che saremo incazzati ogni volta che faremo la spesa, ci metteremo in macchina o andremo al lavoro, perché contempliamo solamente noi e le nostre esigenze, Arriveremo a bollare il mondo come un intralcio, a concepire gli altri come quelli nati senza scuse, abbandonandoci alla pigrizia intellettuale indotta dal giorno dopo giorno. Di contro, permettere alla consapevolezza dell’acqua di dare un ordine alle cose crea conquista, crea variazione e comprensione nella quotidianità, crea facoltà di scelta di pensiero. Potremmo, ad esempio, pensare che le persone di fianco a noi, in fila per la spesa, siano altri esseri umani appena usciti da una stancante giornata di lavoro, ognuno con la propria battaglia, i propri demoni, le proprie ragioni per avere i difetti che ha. Potremmo, in sostanza, tramite la consapevolezza dell’acqua, cercare di comprenderla per viverla al meglio, giorno dopo giorno, in armonia con la stessa e gli altri pesci. Avremo, in questo modo “la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, trovandola non solo significativa, ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose”.


Prima di Foster Wallace, molto prima, a fare un’operazione simile era stato Sofocle, in una delle più intense tragedie mai scritte, ossia l’Elettra. Difatti, in teoria, il protagonista dell’Elettra, non sarebbe Elettra, ma suo fratello Oreste. Egli è il personaggio attorno a cui ruotano tutti gli eventi. Sarà lui a dover essere ucciso, sarà lui a dover diventare Re, sarà lui ad uccidere Egisto e Clitennestra. Eppure, Sofocle incentra tutta la tragedia sul personaggio di Elettra. La porta in primo piano, in tutta la sua complessità, perché è proprio la profonda consapevolezza delle cose di Elettra a permettere il tutto. Lei, che da principessa si riduce a schiava e salvatrice del fratello, mettendo in secondo piano sé stessa e le proprie sensazioni, i propri bisogni, diventa protagonista della tragedia, essendone il motore immobile.


Ogni cosa ha il suo καιρός, il suo momento opportuno. E, come quando si sta male, una tisana è meglio di un BigMac, come quando si è tristi, Leonard Cohen è meglio di Alvaro Soler, nella situazione odierna, la chiave per uscirne è ribaltare l’approccio selfista di Steve Jobs, relegare la via per il successo, in favore della via per la quotidianità di Foster Wallace. L’unico modo per mettere fine a questa pandemia non è chiedere “come mi salvo?”, ma “come posso salvare gli altri?”, l’unico modo per salvare sè stessi, è salvare gli altri, salvarci assieme, salvare tutti per salvare sè stessi. Solo l’unità d’intenti e l’eterodirezione del bene potranno salvarci dal virus. Bisogna, in sostanza, uscire dalla nostra modalità naturale predefinita autoconservativa, per entrare nella consapevolezza dell’eteroconservazione. “Non potrò salvarmi, se gli altri non salveranno me. Non potrò salvare me, se non salverò gli altri”. La consapevolezza che nessuno si salva da solo. Questa è l’acqua.


Federico Rosa


In foto: Rooms by the sea - Edward Hopper

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