Notizia: il Coronavirus è arrivato in Italia. Forse l’avrete letto o sentito, anche se non è che ne abbiano parlato in molti. Questo ha sconvolto le nostre vite. E forse vi sarete accorti anche di questo. Ma, oltre che la nostra pragmatica routine, Covid19 ha messo in discussione anche tutto il nostro modo di pensare alla vita e a noi stessi. Come il primo virus-scimmia dell’età contemporanea, ha portato la nostra società ad ammettere una sua dimensione che abbiamo sempre cercato di nascondere. C’era un elefante nella stanza e noi l’abbiamo sempre negato. Chiamatelo fragilità, incertezza, mortalità. O Bobo, se vi piace di più. Ma c’era ed ora non c’è più. Coronavirus gli ha aperto le porte della stanza e ora è in città a far disastri, ricordando all’intera popolazione i propri limiti.
Eppure, noi l’abbiamo tenuto nascosto fino all’ultimo. Probabilmente persino quando ormai se n’era andato. Quando dalla città chiamavano ad avvisarci, che c’era un enorme pachiderma a far gran casino, noi rispondevamo che “ma no, impossibile, è il vecchio trucco del boa e del cappello. Sarà una semplice influenza, al massimo”. Poi, però, l’elefante è arrivato anche da noi. E allora abbiamo dovuto ammettere che sì, forse abbiamo sbagliato, che qualche limite lo abbiamo, che non si può essere sempre certi di tutto. Ma non abbiamo mollato. Assolutamente. Perché abbiamo scoperto che mica è così stronzo, l’elefante. Se la prende soprattutto coi vecchi e i malati. Com’è umano, l’elefante. E allora lo vedi, che non siamo fragili noi? Lo saranno gli immunodepressi, i vecchi, quelli con altre patologie. Noi no. Ottimo meccanismo difensivo, la differenziazione. E così il sistema sanitario nazionale ha iniziato collassare, sotto le proboscidate dell’elefante, sempre più mammut e sempre meno Dumbo. E pian piano abbiamo riscoperto la paura, perché sì, non è che non siamo fragili, siamo solo un po’ meno fragili di qualcun altro e forse non siamo più nemmeno certi di questo. Siamo arrivati, perciò, all’ultimo stadio dei nostri meccanismi di difesa, affidandoci al fato, alla speransia che l’elefante calpesti qualcun altro. Con gli occhi chiusi e le dita incrociate, abbiamo sperato che il calcio rigore mandasse in finale noi e non gli altri, scoprendoci impotenti, abbandonati ai piedi di un attaccante o alle mani di un portiere. Ci siamo ritrovati tutti ad accettarci fragili, mortali, incerti, ad ammettere che nessuno si salva da solo. Uno sforzo enorme, per la nostra società. Perché non è mai stato facile, nella storia della razza umana, avere a che fare con la morte, concepirla, interiorizzarla. E come potrebbe esserlo? Accettare quell’annientamento che annienta sé stesso, digerire che col finire della vita, finisca essa stessa, come teorizzava Feuerbach, è qualcosa di poco compatibile con le sensazioni umane, qualcosa che ha portato stoici ed epicurei a dibattere per secoli. In quest’ottica, non possiamo che notare come la nostra epoca non sia altro che un’estremizzazione dell’idea pascaliana della caccia alla volpe, secondo cui l’uomo si rifugia in una vita frenetica per rifuggire all’ansia della morte. Di esempi ce ne sarebbero a decine, uno per tutti i social network. Abbiamo virtualizzato ed esteso il momento della caccia alla volpe. Ci siamo creati un profilo a cui consegnare la nostra immagine vincente ed invincibile. Un profilo che sopravviverà a noi. Un profilo che consegnerà al tempo una prospettiva di noi appositamente ritagliata da noi stessi, in cui difficilmente c’è spazio per il negativo, per la presa di coscienza dei nostri limiti. Questo è un male? Ovviamente no. Sarebbe tremendo dover vivere con il costante ricordo della nostra fragilità e mortalità. Ma lo sviluppo sociale ha portato ad estremizzare questa benefica illusione, rendendola una negazione totale di quei concetti. E Covid19 ha, di colpo, riportato l’elefante al centro del villaggio. Una sberla, un risveglio di cui avremmo fatto volentieri a meno, perché combattere il virus, vuol dire combattere innanzitutto una parte di noi, accettandola.
Ma, si sa, non tutti gli elefanti vengono per rompere. E, infatti, questo ridimensionamento, questa presa di coscienza, ha portato ad un vantaggio: il crollo dell’affidabilità del tuttologo immortale. Finalmente, si è riscoperto il valore della competenza. Di fronte all’emergenza vera, ci siamo affidati a chi ne sa. Emblema è la storia di Ilaria Capua, virologa e tesoro di questa nazione. Nel 2006 sceglie di rendere pubblica la sequenza genica del virus dell’aviaria, dando il via alla cosiddetta scienza open-source, oggi pilastro nella lotta a Covid19. Se grazie a ciò, all’estero, viene inserita tra i 50 scienziati più influenti al mondo, in Italia, nel 2016, è costretta ad abbandonare paese e parlamento in seguito ad un’orrenda campagna di fake news, in cui arrivò ad essere definita “trafficante di virus” da L’Espresso. All’epoca, il paese scelse di credere ai giornalisti. Oggi, invece, lei è direttrice del “One Health Center of Excellence” della Florida e viene intervistata tre volte al giorno sull’argomento Coronavirus. Nella paura, il paese si è affidato a Ilaria Capua, non ai giornalisti che ne provocarono l’esilio.
È finito un altro giorno, sotto un cielo blu-Facebook. Nel villaggio c’è chi si rallegra che Bobo non sia passato da casa sua. Ma lo vedono tutti benissimo, quell’elefante nella stanza, illuminato, per la prima volta, da un tramonto viola-Instagram.
Federico Rosa
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